Nuove prospettive, lo stesso impegno

Il numero in giallo di A - Ancona rivista a colori, terzo della serie, si apre come di consueto con l'editoriale del nostro fondatore Carlo Maria Pesaresi. Una panoramica tra i contenuti della rivista che potete scaricare in formato digitale sul nostro sito oppure richiedere in formato cartaceo nelle principali librerie della città.

Che questo piccolo miracolo continui a ripetersi ci riempie di gioia. In questo assai poco disciplinato ordine di uscite, è passato oltre un anno dallo scorso numero. Da allora, nel mezzo, di cose ne sono accadute. Con molti altri compagni di viaggio, audaci e generosi, abbiamo rincorso il sogno ed il desiderio di amministrare una città ed una comunità aperta, proiettata in un futuro fatto di innovazione, cultura, cura e solidarietà. Capita però che i sogni e i desideri prendano altre strade, a volte per un soffio, altre per troppe illusioni o altre ancora semplicemente per sbagli grossolani. E allora ci ritroviamo in un presente diverso e più difficile, che però non smette di sfidarci, che ci sollecita a restare, che continua a provocarci e ci chiede di ricostruire, di ripartire con contenuti, linguaggi e metodi diversi, più coraggiosi.

Il progetto A: Ancona ri|vista a colori, sia su carta che su web, diventa, allora e sempre più, uno dei luoghi da cui ripartire. Uno spazio fisico e virtuale, a disposizione, dove interrogarsi sulla città, dentro e fuori il recinto, un campo dove poter realizzare in modo aperto un confronto sempre più politico sulle urgenze che sono davanti a noi, sulla necessità di una ricomposizione, di una nuova posa delle fondamenta, visto che lì qualcosa si è rotto.

Ecco perché questo numero è giallo. È il colore della luce, dell’energia, della positività, della creatività, della voglia di agire. Nel codice nautico il giallo è anche il colore che segnala l’emergenza e questo, in una città di mare, è doveroso sottolinearlo.

Ecco perché le illustrazioni (splendide davvero) oggi diventano più ruvide, più intense, più forti. Ci serve uno shock che ci obblighi a cambiare prospettiva, a dormire per un po’ in modo scomodo, che ci venga il torcicollo alla mattina. E il gruppo di artisti convocati a raccolta con eccezionale maestria da Micol Mancini ci è sembrato perfetto per soddisfare il nostro desiderio.

Per illustrare l'editoriale di Carlo Pesaresi abbiamo scelto quest'opera di Simone Manfrini, tra gli illustratori protagonisti del Festival Branchie che impreziosiscono il terzo numero di A

 

E questo piccolo miracolo, ancora una volta sapientemente impaginato da quei rigorosi, lucidi ed incoscienti creativi di RossodiGrana, sceglie di ripartire da tre grandi temi che ne costituiscono l’ossatura e a cui dedichiamo lo spazio più ampio: Cultura, Salute, Periferia.

Un numero densissimo.

Che racconta anche di “Ancona a Colori”, comunità politica sorta a valle degli incontri, delle riflessioni, delle cose belle e delle delusioni che hanno attraversato le primarie del centrosinistra e che ora inizia a muovere i primi passi, divenendo luogo di sperimentazione politica autonomo ed innovativo.

Che parla di “Nonturismo”, libro, guida e progetto di Sineglossa, che (finalmente) spic- ca nel panorama un po’ trito e ritrito delle politiche turistiche che circolano nel nostro paese e volge lo sguardo verso una riflessione collettiva sul valore delle comunità, su come coltivare uno scambio intimo e rispettoso tra coloro che visitano e le persone e l’ambiente che vengono visitati.

In cui la nostra cartografia della cura, la “Mappa dei tesori”, continua ad arricchirsi di punti che narrano sempre più di quella Ancona che non molla affatto la sua radicata storia solidaristica e di attenzione ai diritti ed alla cittadinanza attiva e che mostra il lato più bello e forse ancora troppo nascosto di sé.

Dove, un’intensa riflessione di Gaetano Tortorella sui mille volti del quartiere Piano ed

il terzo capitolo della “Storia del capitale sociale anconetano” curata da Giorgio Mangani, completano mirabilmente il quadro degli interventi.

Moltissimi davvero i ringraziamenti non di rito, bensì speciali.

All’indomito comitato di redazione tutto ed a Matteo Belluti che lo conduce per mano. A coloro, singoli o organizzazioni collettive, che abbiamo citato sopra e che abbracciamo.

Al meraviglioso gruppo di Ankonistan, per averci accompagnato, con il suo progetto di narrazione partecipata “AnQnetani”, alla scoperta di un pezzo di città costretta, suo malgrado, dentro un immaginario di quartieri dormitorio e anonimi e a Romina Aguzzi, che di quel gruppo è anima, per averci donato le sue fotografie.

A Valentina Conti, coraggiosa e testarda editrice, che ci ha ospitato nella sua bella libreria per ragionare di politiche e proget- tazione culturale, tra l’esigenza di relazionarsi con il mondo esterno e la necessità di una riflessione profonda sulla dimensione e sull’identità locale. Ed agli amici Damiano Aliprandi, Federico Bomba, Mara Cerquetti, Pierluigi Feliciati, Tommaso Sorichetti e Simona Teoldi che ci sono venuti a trovare e che quel dibattito hanno animato.

A Claudio Maffei per il suo prezioso lavoro, prima a puntate sul sito ed ora qui condensato su carta, con cui prova a tirare le fila di un’Ancona città della salute tra passato, presente e (quale?) futuro.

A Giorgio Mangani per l’impegno che, da intellettuale raffinato qual è, ha rivolto a questo numero e per continuare, da editore, ad aprirci la porta del suo Studio, ar- rampicato lassù a Capodimonte.

A tutti voi che ci leggete e che ci auguriamo vogliate sempre più essere parte attiva e protagonista di questo piccolo miracolo.

 


Ancona Città della Salute/4: Nuovo INRCA, cantiere aperto non solo in senso edilizio

Il reportage di Claudio Maffei sul mondo della sanità anconetana giunge alla quarta e ultima puntata. Nelle tre precedenti, abbiamo parlato nell’ordine di Ancona che “perde” i suoi ospedali che vengono portati fuori della città, della Casa della Comunità che nascerà al vecchio Umberto I e della evoluzione dell’Azienda Ospedaliero-Unversitaria “di Ancona” diventata “delle Marche”. Questa volta tocca all’INRCA, una “istituzione ” dalle molte particolarità che probabilmente sono note solo a una piccola parte dei cittadini e a una parte appena più consistente degli amministratori. Ricostruiamole.

L’INRCA è innanzitutto un Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS, qua gli acronimi abbondano) il che vuol dire che svolge per compito istituzionale una attività di ricerca oltre che assistenziale e che ha, oltre agli altri Direttori soliti (Generale, Sanitario e Amministrativo) anche un Direttore Scientifico e un Consiglio di Indirizzo e Verifica. In quanto IRCCS, l’INRCA risponde sia alla Regione Marche (di gran lunga il suo principale finanziatore) che al Ministero della Salute ed è anche l’unico IRCCS in Italia ad occuparsi di anziani.

L’INRCA si caratterizza poi per altri aspetti. Ha una dimensione multiregionale, avendo sedi ospedaliere (piccole) con attività di area geriatrico-riabilitativa a Casatenovo in Lombardia (provincia di Lecco) e in Calabria a Cosenza. Ha inoltre più sedi di attività nelle Marche perché, oltre ad Ancona di cui parleremo dopo, ha un presidio ospedaliero di piccole dimensioni per acuti e dotato di Pronto Soccorso a Osimo, confluito dall’ASUR all’INRCA il primo gennaio 2018, uno a Fermo di area geriatrico-riabilitativa, mentre a Treia in Provincia di Macerata ha una piccola attività residenziale dentro l’Ospedale di Comunità dell’Azienda Sanitaria Territoriale di Macerata. Quest’ultima attività è stata collocata a Treia in attesa, ormai da molti anni, della ricostruzione della vecchia struttura residenziale INRCA di Appignano (sempre in provincia di Macerata). A un certo punto alla fine degli anni ’70 della rete degli Ospedali INRCA, nata come vedremo ad Ancona, facevano parte, oltre a quelli già nominati, anche gli Ospedali Geriatrici poi chiusi o trasferiti alle Regioni di competenza di Firenze (dove ce n’erano due), Cagliari e Roma mentre se ne dovevano costruire altri, cosa però mai avvenuta, anche a Torino e Genova.

Ma adesso parliamo dell’INRCA di Ancona, la cui appassionante storia viene ricostruita in un bellissimo libro del Professor Enrico Paciaroni pubblicato nel 2005 da “il lavoro editoriale” (L’INRCA: dall’Ospizio dei poveri e di mendicità alla ricerca geriatrica d’eccellenza). Qui la storia dell’INRCA viene fatta partire dalla costituzione nel 1844 ad Ancona dell’Ospizio dei Poveri e di mendicità, collocato presso alcuni locali nel complesso di San Francesco alle Scale. Da qui nel 1927 l’Ospizio venne trasferito alle Grazie dove oggi c’è l’Ospedale INRCA della Montagnola. All’inizio degli anni ’60 la storia dell’INRCA prende velocità grazie all’intraprendenza di un anconetano, Aurelio Paolinelli, Segretario dell’Ente, che avviò e guidò un percorso che portò l’INRCA nel giro di qualche anno ad aprire tutte le sedi ricordate in precedenza. Ad Ancona, oltre all’Ospedale della Montagnola intitolato al benefattore Cav. Ulderico Sestilli, l’INRCA ha la sede degli uffici amministrativi e dell’attività di ricerca economico-sociale nella splendida Villa Gusso al Passetto, dove opera anche un Centro Diurno Alzheimer (Centro Disturbi Cognitivi e Demenze, per la precisione), mentre alcuni Laboratori di Ricerca si trovano in un edificio in via Birarelli nel quartiere San Pietro pieno Centro Storico. Quest’ultimo edificio si trova dove una volta c’era l’Ospedale per i poveri indigenti annesso alla Chiesa di Sant’Anna dei Greci. Nel 1944 parte dell’edificio che ospitava questo Ospedale (già al tempo chiuso da oltre un secolo e mezzo) e la Chiesa furono distrutti da un bombardamento.

Murale sulla solidarietà intergenerazionale all’ingresso dell’Ospedale Geriatrico U. Sestilli
di Ancona

L’attuale Ospedale della Montagnola nacque a seguito dell’abbandono dell’Ospedale INRCA di Posatora danneggiato dalla frana del 1982, frana che causò a Posatora anche l’abbandono del vicino Ospedale Oncologico e di una struttura residenziale per anziani dell’INRCA , il Tambroni, poi ricostruito nell’area retrostante il vecchio Manicomio, area oggi sede degli uffici e degli ambulatori dell’Azienda Sanitaria. Purtroppo questa struttura subito dopo essere stata inaugurata nel 2005 non ha mai iniziato la sua attività per delle gravi carenze strutturali. Ad Ancona l’INRCA svolge anche una attività di “cure intermedie” (e cioè anch’essa di tipo residenziale) presso la struttura Residenza Dorica del gruppo privato Santo Stefano verso Ancona sud oltre al Centro Diurno Alzheimer presso Villa Gusso.

Ma quali sono le opportunità e le problematiche che la presenza dell’INRCA offre ad Ancona?
Partiamo dalla ricerca e dalla progettualità di tipo economico-sociale in cui l’INRCA ha grande esperienza e competenza. Ancora l'integrazione tra Comune di Ancona e INRCA non riesce ad essere sistematica su questi temi. È stato attivo fino all’esplosione della pandemia un Tavolo di lavoro del Comune di Ancona sugli Anziani, Tavolo che aveva prodotto già alcune proposte e di cui l’INRCA era stato protagonista attivo. Se si va però nel sito del Comune nella pagina dedicata agli Anziani nell’ambito delle attività del Servizio Politiche Sociali non compaiono progettualità che coinvolgono esplicitamente l’INRCA e anche nella presentazione dei progetti finanziati dal PNRR l’INRCA non viene citato. Va inoltre citata un'esperienza positiva che dura da alcuni anni di percorso integrato con il Comune per la dimissione protetta dei pazienti dall’Ospedale della Montagnola.

Sul versante sanitario abbiamo nell’INRCA di Ancona una grande opportunità (e relativi rischi) e un grande assente. La grande opportunità sono nel nuovo ospedale sotto Camerano ad Ancona sud, che integrerà le attività della Montagnola più quelle dell’attuale Ospedale di Osimo. Il grande assente è il territorio, dove si gioca la tutela della salute degli anziani e dove l’INRCA fa poca assistenza e di conseguenza fa poca ricerca.

Non si può in questa sede approfondire storia passata e realtà attuale dell’Ospedale INRCA di Ancona in termini di qualità dell’assistenza e della ricerca. Voglio solo ricordare che si tratta di una storia piena di figure di prestigio e di un presente con grandi professionalità. Non faccio elenchi per non correre il rischio di dimenticare qualcuno. Da ricordare invece che all’interno della Montagnola opera la Clinica di Medicina Interna e Geriatria dell’Università Politecnica delle Marche cui afferisce la Scuola di Specializzazione in Geriatria.

Il nuovo Ospedale è previsto con una dotazione di 296 posti letto (dato ufficiale della Regione) e cioè circa 30 in più di quelli di cui dispongono i due attuali ospedali che vi confluiranno che diventano circa 50 , e cioè una ulteriore ventina di più, se si tiene conto di quelli oggi effettivamente operativi (dati ricavabili dai Bilanci dell’INRCA). Tra questi 30-50 posti letto in più ce ne sono molti ad alto assorbimento di risorse umane, quali un nuovo reparto di terapia intensiva e un’area di terapia semintensiva che oggi mancano e due posti letto in più sia per l’unità coronarica che per la stroke-unit. Di questo potenziamento dell’INRCA io, che ho 70 anni (uno per ogni posto letto in più) e che dell’INRCA sono stato mediocre Direttore Sanitario, sono felice. Lo sarei anche di più se la Regione fosse in grado di dimostrare che oltre a rendere operativi tutti questi posti letto riuscirà anche a mantenere le promesse che sta facendo in giro sul potenziamento di tutti gli altri ospedali a Macerata, Senigallia, San Benedetto del Tronto, Pergola, insomma ovunque.

Murale a Capodimonte

Anche gli anconetani dovrebbero avere qualche domanda al riguardo perché con Torrette, il nuovo Salesi e il nuovo INRCA ci sarà il rischio per Ancona di non riuscire ad avere servizi territoriali adeguati. Il personale è limitato e di conseguenza o gli ospedali non lavoreranno a pieno regime o avranno attorno un territorio povero di servizi sociosanitari che farà pressione sui Pronto Soccorso e non riusciranno ad accogliere i pazienti in dimissione. Il rischio per gli ospedali di Ancona di diventare “cattedrali nel deserto” è molto alto. Quindi i nuovi Direttori di Torrette ed INRCA comincino a ragionarci. Con l’INRCA attuale di Ancona che chiude dove andranno i pazienti geriatrici acuti che non troveranno più l’Accettazione Geriatrica d’urgenza della Montagnola? Come si distribuiranno i due ospedali di Ancona le fratture di femore e la patologia chirurgica dell’anziano? Che accordi si prenderanno per garantire che Torrette faccia l’alta complessità e divida con l’INRCA di Ancona-sud la copertura della attività ospedaliera di base per i cittadini di Ancona (e delle altre città e cittadine della stessa area)? I due ospedali si faranno concorrenza o si integreranno? E se si integreranno, come avverrà questa integrazione? E soprattutto: dove si troverà il personale e come si spiegherà al resto della Regione tanta abbondanza ospedaliera (non solo di posti letto, ma anche di tecnologie?

Sempre sul versante sanitario c’è da decidere il destino del Tambroni e dei suoi posti letto residenziali. Si tratta di una partita sospesa da riprendere e chiudere perché comunque comporta costi e perché Ancona ha bisogno di quei posti letto. Il progetto del Tambroni potrebbe comportarere anche il “rientro” dei posti letto di cure intermedie che l’INRCA gestisce in spazi affittati dal Santo Stefano. Anche il Centro Diurno di Villa Gusso merita un’altra più idonea collocazione.

E infine c’è la questione degli immobili. Che fare della struttura in via Birarelli? Certamente le attività di ricerca di laboratorio che vi vengono svolte dovrebbero trovare spazio nel nuovo Ospedale, dove però non ci sono spazi per la Direzione e per gli uffici amministrativi attualmente in via Gusso. Sembra ragionevole un recupero nel tempo alla città anche di questo edificio di grande prestigio e storia.

Insomma, l’INRCA è un grande cantiere aperto e non solo in senso edilizio. C’è bisogno di un progetto INRCA di città (e di Regione, ovviamente) che dia una risposta alle questioni aperte e uno sviluppo alle potenzialità che l’Istituto può offrire alla città che l’ha fatto nascere. Un aiuto lo può, anzi lo deve, dare anche il Comitato di Partecipazione dell’INRCA, che comprende rappresentanti delle Associazioni dei cittadini ed è molto attivo e propositivo. Per concludere: buon lavoro al nuovo Direttore Generale, dottoressa Maria Capalbo, collega che conosco e apprezzo.

 

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Nella foto di copertina: Persone “di una certa età” in Piazza Roma (Foto di Enzo Gerini)


Ancona Città della Salute/3: L'ospedale di Ancona diventa l'Ospedale delle Marche

Il terzo capitolo parte del viaggio nel mondo della sanità anconetana ci porta a Torrette, dove gli Ospedali Riuniti si sono trasformati in "Azienda Ospedaliero-Universitaria delle Marche" diventando il primo e più importante ospedale della Regione. Da questa scelta scaturiscono innegabili vantaggi, ma anche alcuni rischi che Claudio Maffei, medico a riposo, ex docente universitario e dirigente della sanità pubblica, analizza per i lettori di A.

Il tema del “grande” ospedale di Ancona (quello che prima era l’Umberto I e oggi è “Torrette” presso il quale speriamo tra poco troverà spazio anche il nuovo Salesi) è essenziale per la nostra città. Da sempre Ancona ha avuto una vocazione ospedaliera, di cui abbiamo già avuto modo di parlare nel primo degli articoli di questa serie. Una vocazione che l’ha portata ad avere nelle Marche, prima l’unico Ospedale Regionale (quando ancora esisteva questa dizione), e poi ad essere sede della prima e unica Facoltà di Medicina.

Si può tranquillamente - credo - affermare che uno dei “primati” che tutta la Regione “civile” riconosce alla nostra città è proprio a livello di assistenza ospedaliera. Ma anche la Regione “politica” lo riconosce visto che, pur non avendo mai espresso negli ultimi trent’anni un Assessore alla Sanità, Ancona continua ad avere l’unico ospedale di II livello della Regione e quindi l’unico dotato di alte specialità, come ad esempio la cardiochirurgia, la chirurgia toracica, la chirurgia dei trapianti e il Centro Trauma Gravi. Caratteristiche che fanno essere il “nostro” ospedale anche l’unico della Regione con un Dipartimento di Emergenza e Accettazione di II livello con un servizio di elisoccorso e centro di riferimento di reti cliniche importantissime come quella neonatologica.

Per parlare del “nostro” ospedale vorrei usare come spunto di partenza la scelta di trasformare questa estate il nome della Azienda Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti di Ancona Umberto I - G.M. Lancisi - G. Salesi” in “Azienda Ospedaliero-Universitaria delle Marche”.
Il cambio di denominazione è stato deciso dalla Direzione dell’Azienda d’intesa con l’Università Politecnica (a sua volta e non a caso “delle Marche”) all’indomani dell'approvazione da parte della Regione della (a mio parere sciagurata, ma questo è un altro discorso) Legge di Riforma della Sanità delle Marche che ha previsto la soppressione dell’altra Azienda Ospedaliera, quella di Marche Nord, che comprendeva i due ospedali di Pesaro e Fano. Essendo quella di Ancona rimasta la sola Azienda Ospedaliera della Regione, si è ritenuto opportuno rendere evidente anche nella sua denominazione questa unicità facendo così perdere il riferimento nel nome sia alla città che ai suoi tre ospedali storici (il Regionale Umberto I, il Cardiologico Lancisi e l’Ospedaletto Salesi). Si tratta di un caso quasi unico in Italia di Ospedale senza la città nel nome. Le intenzioni alla base del cambio di denominazione sono di per sé buone: rilanciare il ruolo unico e centrale dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria nella Regione.

Secondo me, taglio delle radici a parte (che pure conta), ci sono però alcuni possibili equivoci e altrettanti rischi in questa scelta di cambiare nome. Una scelta importante, come sapevano i Romani secondo cui “nomen omen”: il destino nel nome. Il primo equivoco riguarda il fatto che con il Salesi che va a Torrette (nome troppo locale per chiamare l’Ospedale delle Marche, ma noi continueremo a usarlo) e con l’INRCA che andrà sotto Camerano per gli anconetani quella di Torrette rimarrà l’unica struttura ospedaliera in città. Quella, ad esempio, con il Pronto Soccorso più vicino e più “robusto”, quella con l’offerta ambulatoriale più significativa e quella cui la maggioranza degli anconetani si rivolge per i problemi chirurgici più comuni oltre che per quelli più complessi. L’enfasi sulle sole attività di secondo e terzo livello che caratterizzano il ruolo “marchigiano” (e nazionale) dell’ospedale rischia di far perdere di vista l’importanza delle prestazioni di primo livello della parte dell’ospedale che dovrebbe servire gli anconetani, che infatti a Torrette trovano difficoltà di risposta ad esempio per la patologia chirurgica “minore” che minore non è per chi ne soffre (varici, cataratta ed ernie sono le prime che mi vengono in mente). Il primo rischio della nuova denominazione e della filosofia che la sostiene è dunque che per essere abbastanza “marchigiano” Torrette non ce la faccia più a essere abbastanza anconetano, quando gli anconetani continuano invece ad averne un gran bisogno.

Un secondo rischio è che la nuova denominazione enfatizzi il già pesante ruolo del governo regionale sulle scelte che riguardano il “nostro” ospedale e renda sempre più lontana e passiva la politica locale rispetto a queste scelte. Se l’Ospedale è delle Marche sarà naturale che sia la sola Regione Marche a deciderne i destini. Questa delega non la lascerei tutta in bianco. Il balletto di questi giorni sulla nomina del nuovo Direttore Generale del “nostro” Ospedale costituisce un esempio efficace (mentre scrivo il balletto non è ancora finito).

Terzo rischio: l'esibizione dell'unicità dell’Ospedale di Ancona come sede dell’unica Azienda Ospedaliera delle Marche può ostacolare la sua integrazione con il resto dei servizi. Per svolgere bene il suo ruolo regionale (e nazionale) l’Ospedale di Ancona ha bisogno di fare rete sia con i servizi territoriali locali che con tutta la rete ospedaliera della Regione, a partire dagli ospedali più vicini. Fare rete vuol dire avere obiettivi comuni e una operatività integrata senza competizione. Quindi più il profilo comunicativo dell’Ospedale sarà sobrio e la sua operatività sarà al servizio del sistema sanitario regionale e più la sua centralità verrà riconosciuta. Ricordiamoci che ancora Ancona e il resto della Regione non si amano molto.

Con lo stesso atteggiamento di sobrietà va vissuto il riconoscimento dato di recente all’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ancona, cioè delle Marche, come miglior ospedale pubblico d’Italia. Questo riconoscimento è frutto di una elaborazione dei dati di attività 2021 fatta da una Agenzia del Ministero della Salute. Questa elaborazione notoriamente non è in grado di fare “vere” classifiche perchè utilizza un sistema di indicatori che non copre molti aspetti della qualità dell’assistenza. Si tratta comunque di un ottimo segnale da vivere con la consapevolezza che i miglioramenti da apportare sono tanti e che chi lavora a Torrette o ci va per ricevere assistenza lo sa. Meglio evitare commenti trionfalistici che rischiano di farsi dire “cala giù da qul pajaro!”. Che è la versione anconetana di un invito all’understatement, insomma alla modestia.

Per concludere il ruolo dell’Ospedale di Ancona nella Regione dovrà essere sempre più (facciamo i moderni) “glocal” e quindi capace di concentrarsi contemporaneamente sulla dimensione locale e su quella globale regionale e nazionale. Colgo l’occasione per buttare lì un'idea: perché non trasformare Villa Maria in una sorta di Museo/Centro Studi sugli Ospedali di Ancona? Una storia che merita di essere studiata, conosciuta e meditata.

PS L’occasione è buona anche per fare gli auguri al Prof. Luigi Miti, storico primario della Medicina Generale dell’Umberto I, che il 30 dicembre ha compiuto 108 anni. Un monumento vivente, ancora lucido come sempre nella sua vita.

 

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Nella foto di copertina: L'Ospedale di Torrette


Ancona, città di perle inattese e tesori dormienti, ha bisogno di interventi di qualità

Affascinante quanto complessa, Ancona vive in precario equilibrio tra il “troppo bello” dei suoi monumenti e il “veramente brutto” di alcune “incomprensibili sovrastrutture”. La sfida: sfruttare i suoi contenitori spettacolari per valorizzare il potenziale culturale delle Marche. La penna acuta di Pippo Ciorra traccia la rotta di una città che vuole finalmente recitare un ruolo da capoluogo.

Abitare ad Ancona è un privilegio che bisogna meritarsi. Lo è per l’incredibile ricchezza morfologica della città, un coacervo irripetibile di colline, valli, scogliere, falesie, rive, banchine, ramblas, fortificazioni, monumenti che hanno richiesto anni e anni di silenziosa osservazione prima che mi sentissi in grado di ricostruirne un’immagine mentale tridimensionale, e forse anche una planimetrica. L’emblema percettivo della città per me era quello strano corso principale che va da mare a mare (e da secolo a secolo), lasciando interdetto il visitatore inesperto, e confondendo continuamente l’idea di dove si trovino il nord, il sud, eccetera. Ancona è un privilegio anche per la presenza di un grande porto e del disagio inevitabile che implica per la città (uno status che vale per tutte le città portuali). Si tratta però di un disagio che ha un’altra faccia straordinariamente positiva e stimolante. Non solo per le sue implicazioni economiche, certo non secondarie, ma perché costringe quotidianamente la città a fare i conti coi flussi di persone, la diversità di lingue, nazionalità, etnie, motivazioni, ambizioni. Un cuore dinamico e scontroso, insomma, che batte forte al centro del tessuto urbano, irradiando allo stesso tempo fascino, energia e problemi.

Il porto è quindi la sintesi perfetta della città, legato al mare, ostile e impenetrabile all’entroterra, stressato tra il troppo bello dei suoi monumenti e il troppo brutto di alcune sue sovrastrutture, pubblico e segregato allo stesso tempo, estroverso e pieno di (spazi) segreti. È forse il carattere che più distingue Ancona: un paesaggio dalla morfologia estrema e affascinante dove è quasi impossibile trovare un registro intermedio, uno spazio neutro che colmi la distanza vertiginosa tra i suoi pregi e i suoi difetti (urbanistici e architettonici). La città insomma conosce solo due registri: il bellissimo e il veramente brutto, con la conseguenza che chi la percorre è sottoposto a uno stress estetico continuo, che si può assorbire solo lentamente, con l’aiuto della conoscenza delle sue vicende, con la consapevolezza della sua geografia, con l’abitudine, con la capacità che si sviluppa di affezionarsi ai luoghi a prescindere dal loro aderire a un canone estetico tradizionale. Per molto tempo una delle mie “architetture anconetane” preferite era un benzinaio all’uscita sud della galleria Risorgimento, una macchia gialla che tagliava diagonalmente una collina e ricordava (alla lontana) certi edifici di Zaha Hadid. Convincemmo un fotografo importante (Olivo Barbieri) a farne un ritratto, che ovviamente conservo con amore. Poi il benzinaio ha cambiato gestore, il giallo è diventato un colore più anonimo, in vista è rimasta solo la piccola violenza alla pendice di una collina e addio effetto Hadid.

Quali sono i problemi più urgenti di Ancona (almeno nel campo della cultura urbana) e quali sono le azioni che si potrebbero mettere in campo per risolverli? Immagino che ci sia questo nella testa di chi mi ha chiesto questo testo. Non è una domanda difficile a cui dare risposta; quelle difficili, data la forma, la storia e la struttura della città, sono le risposte operative da proporre per ognuno dei problemi. Ancona ha certamente un problema di viabilità, legato appunto alla sua morfologia e al fatto che il porto è nel cuore della città. Ma è una questione che lasciamo volentieri agli esperti e agli urbanisti, davvero bravi, della città. Di certo, se si crede allo sviluppo ulteriore del porto, prima o poi un modo efficiente per collegarlo alle grandi infrastrutture andrà trovato. Per il resto, più che problemi Ancona ha molte opportunità ancora da cogliere, e forse su queste dovremmo puntare l’attenzione.

La prima, o per lo meno quella della quale per me è più facile parlare, è il rapporto tra cultura e città. Come tutte le città italiane Ancona abbonda di contenitori spettacolari. La Mole, la Polveriera, il Teatro delle Muse, il Palazzo degli Anziani, la Cittadella e via dicendo, distribuiti ai quattro angoli della città. Di queste il teatro è ovviamente quello con l’identità più consolidata, naturalmente legata a una vocazione comune a tutto il territorio regionale, oggetto di un intervento architettonico di qualità alla fine del secolo scorso e tuttora legato a un tessuto che continua a produrre eccellenze. L’urgenza per le Muse non implica invenzioni o cambi di rotta radicali, dipende solo dalla programmazione e dalla capacità di assicurare al teatro un buon management e budget adeguati. Diverso il discorso per gli altri contenitori ad alto tasso di heritage, soprattutto la Mole Vanvitelliana, isola sublime e accerchiata dall’aggressività portuale. La Mole per me rappresenta il termometro della potenzialità culturale della città. Finora lo sforzo -giusto- è stato di recuperarla e destinarla ad attività culturali (e formative). Ospita grandi mostre itineranti, alcuni festival interessanti, molti eventi. Forse il passo successivo potrebbe essere quello di rompere l’accerchiamento portuale estendendo l’aura della Mole oltre i confini della città, nella regione e nella città costiera adriatica transregionale.

Osservando le Marche ci si rende conto che esiste una produzione culturale e artistica polverizzata e instancabile, spesso di qualità alta o altissima, legata a questo o quel dispositivo locale (un’accademia, un gruppo di artisti, una facoltà, una galleria d’arte, una genealogia specifica). Una produzione che però va in parte dispersa o lascia poche tracce perché mancano punti di riferimento di scala maggiore, nazionale o internazionale, hub in grado di coagulare l’energia diffusa (con ovvie e ben note eccezioni relative per esempio ai festival musicali). Con gli studenti molte volte abbiamo vagheggiato in modo molto accademico di un museo dell’arte contemporanea regionale al Lazzaretto, o comunque al porto, imperniato sul lavoro dei maestri che hanno segnato questa regione, Licini, De Dominicis, Giacomelli, Cucchi, Pomodoro, tanto per cominciare. Forse è un’idea ingenua, difficile da attuare in una regione così plurale e così piena di autonomie da proteggere, ma è certo che se la città vuole mostrarsi capace di scavalcare le colline che la circondano e costruire un legame “da capoluogo” col suo territorio, allora forse è proprio sulla cultura che può e deve puntare, facendo del Lazzaretto -o di un altro dei suoi monumenti- il centro di una rete a cui non manca certo l’energia. La città insomma, oltre ad attirare e ospitare cultura, può essere più consapevole della sua capacità di produrla, e di farne un medium delle sue relazioni col mondo. La città peraltro ha esattamente la dimensione ideale da “sede di festival” importante, con una popolazione a metà tra Mantova e Modena, alcune sedi eccellenti, una corona di Comuni e località turistiche che costituiscono un bacino di utenza molto interessante.

Ancona ha una forte tradizione di (buona) urbanistica. La qualità dell’architettura e degli spazi urbani anconetani soffre invece di evidenti alti e bassi. Dagli splendori di alcuni edifici e piazze storiche si scivola verso un tono molto più variabile negli interventi moderni e contemporanei. Non mancano perle inattese (e non sempre riconosciute), come il mercato del pesce di Gaetano Minnucci o la lunga stecca inclinata di Sergio Lenci nelle aree della ricostruzione post-terremoto (che credo più amata da chi ci vive rispetto a chi la guarda), qualche cameo interessante nei quartieri esterni, e ovviamente siamo tutti pieni di gratitudine postuma per Danilo Guerri e Paola Salmoni per il restauro delle Muse. Ma non si può negare che l’impressione generale sia quella di una città in cui gli sforzi degli architetti sono un po’ oscurati da un continuum edilizio in media non particolarmente “bello”. Dipenderà forse dal fatto che mancano in città le tracce architettoniche tipiche del periodo tra le due guerre che troviamo in molti altri centri urbani importanti. Manca insomma l’eredità architettonica degli anni ’20 e ’30, e lo slancio di modernità degli anni ’50 è costretto a crescere su una tabula rasa e a basarsi su casi eccellenti e sporadici, senza affermarsi a sufficienza nel tessuto urbano. Tutto questo per dire che la città ha bisogno di interventi di qualità. Il porto, i molti edifici in attesa di progetto, i vecchi contenitori da restaurare o riciclare -viene in mente il Mercato delle Erbe- sono occasioni straordinarie, che la città dovrà cercare di cogliere per dare il senso di una consapevolezza del proprio ruolo e della fiducia nel futuro che devono competerle.

Ho omesso di scrivere di un altro sublime intreccio di cultura e spazio che segna lo splendore e il menu di problemi della città, vale a dire tutta l’area “in quota”, col Cardeto, i Fari, la zona archeologica e via dicendo. È una specie di tesoro dormiente e segreto della città, un parco storico di dimensioni monumentali di potenzialità smisurata. “Una fatica arrivarci” direbbe qualcuno, e ancora più difficile comunicarne al mondo (turisti, villeggianti, non-anconetani) l’esistenza e l’unicità. Forse è questa l’occasione per fare della “mobilità creativa” e provare ad applicare metodi di accessibilità non ortodossi: tapis-roulant, mini-funivie, navette elettriche, funicolari, ascensori che leghino la quota della città a quella del Cardeto e facciano del parco stesso uno dei contenitori possibili per una strategia oculata di eventi. Ancona insomma è bella e complessa, ma proprio nelle pieghe della sua complessità si possono trovare spazi e suggerimenti per risolvere alcuni problemi e per aprire nuovi scenari.

 

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Foto di copertina: splendida veduta della Mole Vanvitelliana di Francesca Bianchelli