Ancona Città della Salute/5: la città è sana se la salute diventa bene comune
Nelle quattro precedenti puntate del viaggio nella sanità cittadina con Claudio Maffei, abbiamo parlato nell’ordine: di Ancona che “perde” i suoi ospedali che vengono portati fuori della città, della Casa della Comunità che nascerà al vecchio Umberto I, dell'evoluzione dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria “di Ancona” diventata “delle Marche” e delle prospettive che riguardano l’INRCA, un’altra “istituzione ” sanitaria della città in cui si intrecciano una componente assistenziale e una di ricerca. C'è una nuova puntata, nella quale ci soffermiamo sul concetto di “città sana”.
Cosa voglia dire essere (o provare a essere) “città sana” lo troviamo in un “manifesto per l’impegno sulla salute nelle città come bene comune” la cui stesura e revisione è stata realizzata di recente grazie al contribuito di oltre 200 esperti e 36 tra Istituzioni, enti, università, società scientifiche, associazioni pubbliche e private tra cui l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani. Questo documento aggiorna un precedente documento del 2016, aggiornamento reso necessario dalla esperienza della pandemia. Diciamo subito che Ancona, e questo è un merito della attuale Amministrazione, fa già parte della Rete Italiana Città Sane - OMS e anzi ha organizzato lo scorso 9 e 10 giugno 2022 il XIX Meeting nazionale di questa rete dal titolo “La salute tra esperienza e innovazione: dalle buone pratiche alle nuove sfide”. Del resto Emma Capogrossi, attuale assessore alle Politiche sociali e Sanità, è il presidente della Rete italiana Città Sane.
Vediamo di capire che cosa si intende per città sana, healthy city, secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della sanità). Una città sana è conscia dell’importanza della salute come bene collettivo e di conseguenza mette in atto delle politiche chiare per tutelarla e migliorarla. La salute da bene individuale diventa bene comune che come tale diventa un obiettivo dei cittadini, dei sindaci e degli amministratori locali, che devono proporsi come garanti di una sanità equa, in cui la salute della collettività è considerata più come investimento e come risorsa che come un costo.
Il Manifesto di recentissima approvazione citato prima delinea dieci punti chiave che possono guidare le città a studiare ed approfondire i determinanti della salute nei propri contesti e a fare leva su di essi per escogitare strategie per migliorare gli stili di vita e lo stato di salute dei cittadini, ovvero:
1) ogni cittadino ha diritto a una vita sana ed integrata nel proprio contesto urbano. Bisogna rendere la salute il fulcro di tutte le politiche urbane;
2) assicurare un alto livello di alfabetizzazione e di accessibilità all’informazione sanitaria per tutti i cittadini e inserire l’educazione sanitaria in tutti i programmi scolastici con particolare riferimento ai rischi per la salute nel contesto urbano;
3) incoraggiare stili di vita sani nei luoghi di lavoro, nelle comunità e nei contesti familiari;
4) promuovere una cultura alimentare e la lotta alla povertà alimentare;
5) ampliare e migliorare l’accesso alle pratiche sportive e motorie per tutti i cittadini, favorendo lo sviluppo psicofisico dei giovani e l’invecchiamento attivo;
6) sviluppare politiche locali di trasporto urbano orientate alla sostenibilità ambientale e alla creazione di una vita salutare;
7) creare iniziative locali per promuovere l’adesione dei cittadini ai programmi di prevenzione primaria, con particolare riferimento alle malattie croniche, trasmissibili e non trasmissibili;
8) intervenire per prevenire e contenere l’impatto delle malattie trasmissibili infettive e diffusive, promuovendo e incentivando i piani di vaccinazione, le profilassi e la capacità di reazione delle istituzioni coinvolte con la collaborazione dei cittadini;
9) considerare la salute delle fasce più deboli e a rischio quale priorità per l’inclusione sociale nel contesto urbano;
10) studiare e monitorare a livello urbano i determinanti della salute dei cittadini attraverso una forte alleanza tra Comuni, Università, Aziende Sanitarie, centri di ricerca, industria e professionisti.
Ancona, come già detto, è impegnata attivamente in una politica cittadina in questa direzione. Nelle pagine del sito del Comune dedicate alla Rete Città Sane si trovano tutte le iniziative promosse in tale ambito a testimonianza della vitalità di questa attenzione. C’è però ovviamente ancora molto da fare. Faccio qualche esempio (tre) che potrebbero aiutare questo percorso di ulteriore miglioramento. Il primo esempio riguarda il tema della comunicazione, mentre gli altri due riguardano specifici temi di salute.
Il primo punto sulla comunicazione parte dal tema dell’inquinamento dell’aria. Questo è diventato centrale nel dibattito anche politico nella città. I livelli di alcuni inquinanti è più alto in Ancona non di quelli previsti dalla norma, ma di quelli previsti come “sicuri” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, con un conseguente importante impatto in termini di “decessi anticipati” in persone con malattia cronica. Di fronte a questa problematica il Comune si è posto in maniera difensiva senza, per quello che mi consta, fare due iniziative di tipo comunicativo che potevano farlo uscire dall’angolo in cui lo hanno messo i dati e le “accuse” motivate che vengono da gruppi attenti alle problematiche ambientali e da singoli cittadini esperti. La prima è comunicare con i cittadini in modo da far emergere che gli studi alla base della stima di questi rischi il Comune li ha economicamente sostenuti, li ha resi disponibili nel sito “Ancona respira” dedicato al Progetto Inquinamento Ambientale e intende utilizzarli nelle proprie scelte di governo. La seconda riguarda la comunicazione istituzionale. Sembra che la vicenda dell’inquinamento atmosferico di Ancona sia una questione del tipo “il Sindaco e la sua amministrazione contro tutti”, quando è evidente che la complessità del tema richiede il coinvolgimento degli altri Enti istituzionalmente competenti e soprattutto dotati di quelle risorse professionali necessarie ad analizzare una criticità di tipo ambientale nei suoi riflessi sulla salute dei cittadini. Si tratta allora di mettere il Sindaco e l’Amministrazione in condizione di prendere i provvedimenti necessari o comunque opportuni con il supporto di quanti sono capaci di valutare e monitorare i dati ambientali, e cioè l’ARPAM (Agenzia Regionale per l’Ambiente delle Marche), e di incrociarli con l’analisi dei dati sanitari, e cioè sia l’Azienda Sanitaria Territoriale (AST) prima Azienda Sanitaria Unica Regionale che l’ARPAM che la Agenzia Sanitaria Regionale (ARS). Per cui andava (e va) subito stabilita una relazione istituzionale coi tre enti (Regione con l’ARS , AST e ARPAM) per procedere a questa valutazione integrata e alla messa a regime di un sistema di monitoraggio e di gestione continuo del problema perché uno studio una tantum non ha senso.
Quanto ai due nuovi temi di salute da affrontare in una logica da città sana, il primo è quello di rendere Ancona una comunità amica delle persone con demenza. La demenza è un enorme problema sia per le persone che ne sono affette che per le persone che le supportano. Ancona ha anche come risorsa l’INRCA che sui temi dell’invecchiamento fa ricerca e non solo assistenza. Perché non promuovere allora un progetto che la adatti ad essere una città dementia friendly, per dirla ancora una volta in inglese? Per capire cosa voglia dire questa espressione basta fare riferimento alla figura (vedi) presa dal sito Dementia Friendly Italia, una iniziativa della Federazione Alzheimer Italia. Di recente è stata fatta una mozione per impegnare in questo senso la Amministrazione Comunale e quindi ci sono tutte le premesse per partire.

Il secondo tema di salute parte da una annotazione su cosa non è una città sana: non è una città che in occasioni straordinarie offre esami e visite gratuite ai cittadini. Questa è al massimo beneficienza istituzionale e le istituzioni non fanno beneficienza una tantum, ma danno una risposta tutti i giorni. E in questo senso sarebbe straordinario se il Comune coordinasse una iniziativa per mettere in rete e potenziare gli ambulatori solidali, quelli che assistono gratuitamente i cittadini in difficoltà.
Insomma, per rendere Ancona una città sana c’è ancora tanto da fare.
Ancona, città di perle inattese e tesori dormienti, ha bisogno di interventi di qualità
Affascinante quanto complessa, Ancona vive in precario equilibrio tra il “troppo bello” dei suoi monumenti e il “veramente brutto” di alcune “incomprensibili sovrastrutture”. La sfida: sfruttare i suoi contenitori spettacolari per valorizzare il potenziale culturale delle Marche. La penna acuta di Pippo Ciorra traccia la rotta di una città che vuole finalmente recitare un ruolo da capoluogo.
Abitare ad Ancona è un privilegio che bisogna meritarsi. Lo è per l’incredibile ricchezza morfologica della città, un coacervo irripetibile di colline, valli, scogliere, falesie, rive, banchine, ramblas, fortificazioni, monumenti che hanno richiesto anni e anni di silenziosa osservazione prima che mi sentissi in grado di ricostruirne un’immagine mentale tridimensionale, e forse anche una planimetrica. L’emblema percettivo della città per me era quello strano corso principale che va da mare a mare (e da secolo a secolo), lasciando interdetto il visitatore inesperto, e confondendo continuamente l’idea di dove si trovino il nord, il sud, eccetera. Ancona è un privilegio anche per la presenza di un grande porto e del disagio inevitabile che implica per la città (uno status che vale per tutte le città portuali). Si tratta però di un disagio che ha un’altra faccia straordinariamente positiva e stimolante. Non solo per le sue implicazioni economiche, certo non secondarie, ma perché costringe quotidianamente la città a fare i conti coi flussi di persone, la diversità di lingue, nazionalità, etnie, motivazioni, ambizioni. Un cuore dinamico e scontroso, insomma, che batte forte al centro del tessuto urbano, irradiando allo stesso tempo fascino, energia e problemi.
Il porto è quindi la sintesi perfetta della città, legato al mare, ostile e impenetrabile all’entroterra, stressato tra il troppo bello dei suoi monumenti e il troppo brutto di alcune sue sovrastrutture, pubblico e segregato allo stesso tempo, estroverso e pieno di (spazi) segreti. È forse il carattere che più distingue Ancona: un paesaggio dalla morfologia estrema e affascinante dove è quasi impossibile trovare un registro intermedio, uno spazio neutro che colmi la distanza vertiginosa tra i suoi pregi e i suoi difetti (urbanistici e architettonici). La città insomma conosce solo due registri: il bellissimo e il veramente brutto, con la conseguenza che chi la percorre è sottoposto a uno stress estetico continuo, che si può assorbire solo lentamente, con l’aiuto della conoscenza delle sue vicende, con la consapevolezza della sua geografia, con l’abitudine, con la capacità che si sviluppa di affezionarsi ai luoghi a prescindere dal loro aderire a un canone estetico tradizionale. Per molto tempo una delle mie “architetture anconetane” preferite era un benzinaio all’uscita sud della galleria Risorgimento, una macchia gialla che tagliava diagonalmente una collina e ricordava (alla lontana) certi edifici di Zaha Hadid. Convincemmo un fotografo importante (Olivo Barbieri) a farne un ritratto, che ovviamente conservo con amore. Poi il benzinaio ha cambiato gestore, il giallo è diventato un colore più anonimo, in vista è rimasta solo la piccola violenza alla pendice di una collina e addio effetto Hadid.
Quali sono i problemi più urgenti di Ancona (almeno nel campo della cultura urbana) e quali sono le azioni che si potrebbero mettere in campo per risolverli? Immagino che ci sia questo nella testa di chi mi ha chiesto questo testo. Non è una domanda difficile a cui dare risposta; quelle difficili, data la forma, la storia e la struttura della città, sono le risposte operative da proporre per ognuno dei problemi. Ancona ha certamente un problema di viabilità, legato appunto alla sua morfologia e al fatto che il porto è nel cuore della città. Ma è una questione che lasciamo volentieri agli esperti e agli urbanisti, davvero bravi, della città. Di certo, se si crede allo sviluppo ulteriore del porto, prima o poi un modo efficiente per collegarlo alle grandi infrastrutture andrà trovato. Per il resto, più che problemi Ancona ha molte opportunità ancora da cogliere, e forse su queste dovremmo puntare l’attenzione.
La prima, o per lo meno quella della quale per me è più facile parlare, è il rapporto tra cultura e città. Come tutte le città italiane Ancona abbonda di contenitori spettacolari. La Mole, la Polveriera, il Teatro delle Muse, il Palazzo degli Anziani, la Cittadella e via dicendo, distribuiti ai quattro angoli della città. Di queste il teatro è ovviamente quello con l’identità più consolidata, naturalmente legata a una vocazione comune a tutto il territorio regionale, oggetto di un intervento architettonico di qualità alla fine del secolo scorso e tuttora legato a un tessuto che continua a produrre eccellenze. L’urgenza per le Muse non implica invenzioni o cambi di rotta radicali, dipende solo dalla programmazione e dalla capacità di assicurare al teatro un buon management e budget adeguati. Diverso il discorso per gli altri contenitori ad alto tasso di heritage, soprattutto la Mole Vanvitelliana, isola sublime e accerchiata dall’aggressività portuale. La Mole per me rappresenta il termometro della potenzialità culturale della città. Finora lo sforzo -giusto- è stato di recuperarla e destinarla ad attività culturali (e formative). Ospita grandi mostre itineranti, alcuni festival interessanti, molti eventi. Forse il passo successivo potrebbe essere quello di rompere l’accerchiamento portuale estendendo l’aura della Mole oltre i confini della città, nella regione e nella città costiera adriatica transregionale.
Osservando le Marche ci si rende conto che esiste una produzione culturale e artistica polverizzata e instancabile, spesso di qualità alta o altissima, legata a questo o quel dispositivo locale (un’accademia, un gruppo di artisti, una facoltà, una galleria d’arte, una genealogia specifica). Una produzione che però va in parte dispersa o lascia poche tracce perché mancano punti di riferimento di scala maggiore, nazionale o internazionale, hub in grado di coagulare l’energia diffusa (con ovvie e ben note eccezioni relative per esempio ai festival musicali). Con gli studenti molte volte abbiamo vagheggiato in modo molto accademico di un museo dell’arte contemporanea regionale al Lazzaretto, o comunque al porto, imperniato sul lavoro dei maestri che hanno segnato questa regione, Licini, De Dominicis, Giacomelli, Cucchi, Pomodoro, tanto per cominciare. Forse è un’idea ingenua, difficile da attuare in una regione così plurale e così piena di autonomie da proteggere, ma è certo che se la città vuole mostrarsi capace di scavalcare le colline che la circondano e costruire un legame “da capoluogo” col suo territorio, allora forse è proprio sulla cultura che può e deve puntare, facendo del Lazzaretto -o di un altro dei suoi monumenti- il centro di una rete a cui non manca certo l’energia. La città insomma, oltre ad attirare e ospitare cultura, può essere più consapevole della sua capacità di produrla, e di farne un medium delle sue relazioni col mondo. La città peraltro ha esattamente la dimensione ideale da “sede di festival” importante, con una popolazione a metà tra Mantova e Modena, alcune sedi eccellenti, una corona di Comuni e località turistiche che costituiscono un bacino di utenza molto interessante.
Ancona ha una forte tradizione di (buona) urbanistica. La qualità dell’architettura e degli spazi urbani anconetani soffre invece di evidenti alti e bassi. Dagli splendori di alcuni edifici e piazze storiche si scivola verso un tono molto più variabile negli interventi moderni e contemporanei. Non mancano perle inattese (e non sempre riconosciute), come il mercato del pesce di Gaetano Minnucci o la lunga stecca inclinata di Sergio Lenci nelle aree della ricostruzione post-terremoto (che credo più amata da chi ci vive rispetto a chi la guarda), qualche cameo interessante nei quartieri esterni, e ovviamente siamo tutti pieni di gratitudine postuma per Danilo Guerri e Paola Salmoni per il restauro delle Muse. Ma non si può negare che l’impressione generale sia quella di una città in cui gli sforzi degli architetti sono un po’ oscurati da un continuum edilizio in media non particolarmente “bello”. Dipenderà forse dal fatto che mancano in città le tracce architettoniche tipiche del periodo tra le due guerre che troviamo in molti altri centri urbani importanti. Manca insomma l’eredità architettonica degli anni ’20 e ’30, e lo slancio di modernità degli anni ’50 è costretto a crescere su una tabula rasa e a basarsi su casi eccellenti e sporadici, senza affermarsi a sufficienza nel tessuto urbano. Tutto questo per dire che la città ha bisogno di interventi di qualità. Il porto, i molti edifici in attesa di progetto, i vecchi contenitori da restaurare o riciclare -viene in mente il Mercato delle Erbe- sono occasioni straordinarie, che la città dovrà cercare di cogliere per dare il senso di una consapevolezza del proprio ruolo e della fiducia nel futuro che devono competerle.
Ho omesso di scrivere di un altro sublime intreccio di cultura e spazio che segna lo splendore e il menu di problemi della città, vale a dire tutta l’area “in quota”, col Cardeto, i Fari, la zona archeologica e via dicendo. È una specie di tesoro dormiente e segreto della città, un parco storico di dimensioni monumentali di potenzialità smisurata. “Una fatica arrivarci” direbbe qualcuno, e ancora più difficile comunicarne al mondo (turisti, villeggianti, non-anconetani) l’esistenza e l’unicità. Forse è questa l’occasione per fare della “mobilità creativa” e provare ad applicare metodi di accessibilità non ortodossi: tapis-roulant, mini-funivie, navette elettriche, funicolari, ascensori che leghino la quota della città a quella del Cardeto e facciano del parco stesso uno dei contenitori possibili per una strategia oculata di eventi. Ancona insomma è bella e complessa, ma proprio nelle pieghe della sua complessità si possono trovare spazi e suggerimenti per risolvere alcuni problemi e per aprire nuovi scenari.
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Foto di copertina: splendida veduta della Mole Vanvitelliana di Francesca Bianchelli
Ancona città della Salute / 2: Ospedale di Comunità all’Umberto I, costruite le mura, aspettiamo i contenuti
La seconda parte del viaggio nel mondo della sanità cittadina è incentrata sul vecchio Umberto I, inaugurato nel 1911 e chiuso nel 2003. Qui sorgerà uno dei due ospedali di comunità di Ancona. Ma che cosa prevede il progetto? E che cosa serve per far sì che tali strutture siano efficaci e virtuose? Ce ne parla Claudio Maffei, medico a riposo, ex docente universitario e dirigente della sanità pubblica
Il 20 novembre 1911 si inaugurava il vecchio Ospedale Umberto I di Ancona che nel 2003 chiuderà. Tra qualche tempo (mesi probabilmente, anni speriamo proprio di no) riaprirà con attività completamente diverse, che con l’ospedale non c’entrano e che anzi dovrebbero fortemente ridurre la necessità dei cittadini di Ancona di ricorrere ai suoi ospedali, nel frattempo trasferitisi quasi del tutto a Torrette (sia il vecchio Umberto I che il cardiologico Lancisi, mentre a breve -anche qui speriamo presto - seguirà il trasferimento dell’Ospedaletto dei Bambini Salesi). Nella prima parte del mio intervento ho descritto le motivazioni da riduzione nel numero degli Ospedali di Ancona e del loro spostamento del centro. In questo secondo articolo descriverò invece una parte importante del progetto di trasformazione del vecchio Umberto I.

Vediamo innanzitutto cosa prevede il progetto. Dai giornali locali apprendo che alla sanità saranno dedicati i due padiglioni all’ingresso dell’ex Umberto I. Uno ospiterà una Casa della Comunità, dove saranno tra l’altro trasferiti tutti i servizi presenti ora al Poliambulatorio del Viale della Vittoria, e uno ospiterà delle attività residenziali per gli anziani e un hospice. In questo articolo non entrerò nel dettaglio del progetto, che peraltro non conosco, e non farò polemiche sui ritardi vincendo la tentazione di confrontarli con quelli della realizzazione del primo vero Umberto I (credo sei anni, ma non lo voglio ricordare!). Parlerò invece della filosofia che ha ispirato la parte più interessante del progetto, quella che prevede la creazione di una Casa della Comunità, riservando a future occasioni la presentazione delle indicazioni progettuali di dettaglio, magari con il coinvolgimento delle due istituzioni interessate (Azienda Sanitaria Unica Regionale e Comune).
Partiamo da una banale premessa sotto forma di domanda: come facciamo oggi a rispondere ai problemi di salute dei cittadini con meno ospedali e meno posti letto? Nel caso di Ancona, come si fa a farsi bastare un solo ospedale, oltretutto non in centro? E’ evidente che perché la salute degli anconetani non ne risenta occorre che i servizi territoriali cambino e facciano cose che prima non facevano o non facevano abbastanza. Se impostiamo la questione così proviamo a vedere come il nuovo Umberto I, Casa della Comunità e non più ospedale, aiuterà a funzionare bene e a essere sufficiente il nuovo Ospedale Umberto I (con dentro ovviamente anche il Salesi e il Lancisi).
Vediamo da vicino cosa è una Casa della Comunità. Per dare un senso a tale struttura e alle sue funzioni ci conviene partire da un dato: il principale problema di salute che andrebbe gestito in modo diverso in Italia e nelle Marche per ridurre il carico di lavoro degli ospedali è quello delle malattie croniche. Si tratta di una serie di malattie che non possono guarire, ma possono essere prevenute e/o rallentate. Stiamo parlando delle malattie del cuore (come lo scompenso cardiaco), delle malattie croniche dell’apparato respiratorio, del diabete, dell’ictus, della ipertensione arteriosa, ecc. Sono malattie e condizioni che spesso sono presenti nella stessa persona contemporaneamente e che sono la principale causa di invalidità e di morte. Per queste malattie e condizioni si dovrebbe passare da un modello di risposta tradizionale in cui la persona se si aggrava si rivolge al suo medico di medicina generale e questo si rivolge nei casi più rilevanti allo specialista, ad un modello proattivo di solito identificato con il termine di sanità di iniziativa. In questo modello le persone con una condizione cronica vengono educate a gestire al meglio la propria condizione con l’aiuto dei familiari e quando la loro condizione si aggrava hanno a disposizione una equipe che se ne fa carico senza che lui o lei se ne debba più preoccupare. Si usa in questi casi il termine di “presa in carico” da parte dei servizi. Perché questa avvenga occorre superare la organizzazione tradizionale della medicina generale e della pediatria del territorio (la cosiddetta pediatria di libera scelta) in cui i medici tendono a lavorare ciascuno nel proprio ambulatorio di solito con poco personale di supporto amministrativo, per lo più amministrativo, e arrivare ad una organizzazione in cui i medici e i pediatri “di famiglia” lavorano in equipe assieme a infermieri (tra cui quelli corrispondenti alla figura nuova dell’infermiere di famiglia e di comunità), medici specialisti, psicologi, ostetrici, assistenti sociali e altri professionisti delle aree della prevenzione, della riabilitazione e tecnica. La struttura che ospita questa organizzazione deve offrire i suoi servizi nelle 12 ore diurne e con la Guardia Medica coprire le 24 ore. Ecco, abbiamo appena descritto la Casa della Comunità.
Questa delle Case della Comunità è una quasi novità del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che ne ha finanziate dal punto di vista edilizio 29 nelle Marche, di cui due ad Ancona, uno all’ex Umberto I e una all’ex CRASS. Le caratteristiche organizzative e funzionali di queste strutture sono state definite da un Decreto Ministeriale di recente approvazione. Il Decreto prevede in aggiunta a quanto già detto che le Case della Comunità siano sede di una forte integrazione tra i servizi sanitari e sociali, offrano assistenza domiciliare, ospitino le attività consultoriali, si rapportino con i servizi del Dipartimento di Salute Mentale, svolgano attività di prevenzione delle malattie (come gli screening dei tumori) e di promozione della salute e infine siano aperte ai cittadini e quindi anche al volontariato, alle associazioni dei cittadini e dei pazienti e ai cosiddetti caregiver, e cioè i familiari che partecipano attivamente al processo di assistenza ai loro cari.
Il pensiero di chi ha vissuto almeno da bambino la sanità di 50 anni fa, quella di prima della riforma del 1978 che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale (la Legge 833), corre a questo ai vecchi Poliambulatori dell’INAM, quello ad esempio in via Maratta vicino alla Chiesa del Sacro Cuore dove accompagnavo mia madre. No, la Casa della Comunità è un’altra cosa. E soprattutto non è solo una nuova struttura edilizia che dà una veste migliore e più funzionale ai servizi territoriali così come oggi li conosciamo, ma è molto di più e soprattutto è un modo diverso di occuparsi della salute dei cittadini. Pensiamo solo alla attività dei Medici di Medicina Generale, non più frammentata in tanti ambulatori individuali, ma trasformata in una attività integrata all’interno di una equipe multidisciplinare e multiprofessionale. Una vera rivoluzione che però va costruita, perché non basteranno dei muri nuovi a renderla possibile.
Perché le Case della Salute facciano quello che ci si aspetta da loro occorre che i servizi territoriali che vi dovranno confluire abbiano da una parte più risorse umane (se mancano quelle la nuova struttura rimarrà in parte vuota) e dall’altra sappiano costruire un modo nuovo di lavorare. Con mura nuove e teste vecchie, le Case della Comunità non andranno lontano. E quindi non cominceranno a funzionare quando l’ultimo muratore sarà uscito, bensì quando all’interno si comincerà a lavorare in equipe per garantire assistenza proattiva alle persone, lungo i loro percorsi assistenziali.
Finora ci si è occupati (politica compresa) soprattutto delle mura. Adesso è arrivato il momento di riempirla di risorse e cultura nuove. Ed è su questo che il dibattito pubblico e politico dovrebbe svilupparsi per non trovarsi, a lavori finiti, a dire: “beh, tutto qui?”
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Nella foto di copertina: L’ingresso dell’Ospedale Umberto I, anni 1925-1930 circa (Fondo Corsini)
Patti di collaborazione, così un bene pubblico diventa bene comune. E i cittadini tornano protagonisti
La nostra intervista al fondatore e presidente emerito di “Labsus” Gregorio Arena. A lui si deve l’invenzione di un potente ed efficace strumento di sussidiarietà e amministrazione condivisa
Da qualche settimana ha lasciato la presidenza di Labsus, il Laboratorio per la Sussidiarietà che ha fondato 15 anni fa e con il quale ha costruito un nuovo potente strumento di cittadinanza attiva, i patti di collaborazione per la gestione dei beni comuni. «È solo un passo di lato -chiarisce Gregorio Arena- dopo tanti anni un ricambio è fisiologico e necessario, anche perché non è buon segno quando un’associazione si identifica troppo con una persona. In ogni caso sono stato eletto presidente emerito, quindi continuerò a far parte del direttivo e ad impegnarmi per Labsus». Un’attività che il professor Arena dopo la pensione porta avanti a tempo pieno e con grande vigore. Fino a 2 anni fa percorreva migliaia di chilometri su e giù per lo Stivale, incontrando istituzioni e cittadini interessati ad approfondire il concetto di amministrazione condivisa. La pandemia lo ha costretto a fermarsi per un po’, ma ha già ricominciato a programmare i prossimi viaggi, e anzi prima di iniziare questa intervista su Zoom ci dà appuntamento a presto per una chiacchierata dal vivo ad Ancona, una città che finora non ha saputo comprendere le potenzialità e la straordinarietà dei patti di collaborazione. Allora cerchiamo di capirne un po’ di più.
Professore, per anni la partecipazione dei cittadini alla Pubblica Amministrazione è stata una chimera sempre evocata ma quasi mai raggiunta e praticata. A forza solo di celebrarla ed esaltarla vanamente nel tempo ha perso di significato e fascino. Vero è che sino a qualche anno fa gli strumenti a disposizione degli amministratori locali erano piuttosto inadeguati. Questo però sino al 22 febbraio 2014, da quando cioè il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni è stato presentato a Bologna e messo a disposizione di tutti i comuni italiani. Da allora, come lei ci dice “non c’è più alibi per coloro che preferiscono mantenere i cittadini nel ruolo di amministrati, utenti, assistiti e così via, anziché farli diventare, insieme con le amministrazioni, protagonisti nella soluzione dei problemi della comunità”. Ci spiega come effettivamente funzionano il Regolamento ed i patti di collaborazione e perché questi strumenti sono così efficaci?
«Sono efficaci perché sono semplici, non richiedono competenze particolari e sono alla portata di tutti. In Italia si parla di partecipazione dalla metà degli anni ‘70 del secolo scorso, ma è un concetto che ha dato luogo a molteplici interpretazioni. In Francia, per esempio, è in vigore una legge sul Debat Public in base alla quale ogni progetto di opera pubblica deve essere preliminarmente discusso con i cittadini prima di essere realizzato. In Italia invece le amministrazioni adottano, del tutto legittimamente, decisioni importanti che riguardano una collettività sulla base della delega ricevuta al momento del voto (per esempio sulla localizzazione di un inceneritore o di una discarica) e poi sono costrette a confrontarsi (a volte anche in maniera conflittuale) con i comitati di cittadini che nascono per opporsi a quel progetto. Sarebbe preferibile coinvolgere i cittadini prima di decidere, anche se ovviamente è impossibile pensare di poter organizzare assemblee per ogni decisione, anche perché ci sono diversi problemi. Innanzitutto quello dell’asimmetria informativa, a causa del quale gli amministratori hanno competenze e informazioni che i cittadini non possono avere. E poi ancora c’è la questione della legittimità delle assemblee di cittadini, in altri termini, chi è legittimato a parteciparvi per parlare (e decidere) a nome dell’intera comunità? A volte si creano situazioni per cui alcuni, i cosiddetti professionisti della partecipazione, vanno a tutte le assemblee pretendendo di parlare a nome di tutti, pur non avendo alcun mandato. Insomma i tentativi di far partecipare i cittadini alla vita pubblica con questi strumenti spesso si arenano su queste ed altre difficoltà. Il modello dei patti di collaborazione proposto da Labsus è invece molto semplice, perché cittadini e amministrazione comunale si incontrano non per decidere sulla localizzazione di un’opera pubblica, ma su come soddisfare insieme un bisogno collettivo: la sistemazione di una piazzetta, le pareti di una scuola da ridipingere, un’area verde piena di rifiuti da ripulire e trasformare in un parchetto, un rudere da recuperare per farne un luogo attraente e utile. Tutte cose estremamente concrete e facilmente realizzabili. Nella realizzazione dei patti di collaborazione c’è sempre una prima fase di progettazione, che diventa di fatto una co-progettazione, in cui i cittadini imparano a confrontarsi fra loro, ad organizzare una riunione, predisporre un ordine del giorno, discutere insieme.... insomma i patti sono una piccola scuola di democrazia. Dopo di che viene stipulato con l’amministrazione comunale un patto con precise assunzioni di responsabilità sia da parte dell’amministrazione, sia dei cittadini, con tempi di realizzazione, assunzione di oneri, dettaglio di spesa, il tutto in piena trasparenza, perché tutti devono poter conoscere come si interviene su quelli che sono beni pubblici, cioè di tutti».
Da cittadino coinvolto nei processi decisionali della PA a cittadino “custode attivo” (come lei lo definisce), alleato dell’amministrazione locale, in grado di produrre effetti vantaggiosi nella trasformazione della comunità, nel miglioramento dei servizi alle persone, nella cura dell’habitat, nella costruzione di socialità e finanche sotto il profilo economico. Un ruolo ed una funzione del tutto nuovi e innovativi. È così?
«È così, certamente. È un ruolo del tutto nuovo, di una concretezza estrema, perché i cittadini attivi sono anche molto operativi, non si limitano a discutere ma incidono sulla realtà prendendosi cura dei beni comuni. Ed è un ruolo ad alta densità di relazioni umane, in cui la cura dei beni comuni diventa al tempo stesso cura dei rapporti fra le persone, spesso persone sole, che grazie ai patti socializzano tra loro. In questo periodo terribile della pandemia noi di Labsus abbiamo visto che c’è anche un effetto terapeutico dei patti, da non sottovalutare: le persone si aggregano per fare qualcosa di utile per la collettività ed al tempo stesso fanno qualcosa di utile per sé stessi, stanno meglio, si sentono utili, si divertono. Un altro aspetto positivo dei patti di collaborazione è la centralità che essi attribuiscono ai cittadini ed alla loro iniziativa, perché il principio di sussidiarietà sancito dalla Costituzione all’art. 118, ultimo comma dispone che la Repubblica deve favorire le autonome iniziative dei cittadini, ma se questi ultimi non si attivano, la Repubblica non ha niente da favorire. Quindi i cittadini diventano protagonisti della realizzazione di un principio costituzionale! A Siena da anni è in vigore un patto per la cura delle antiche mura cittadine. Una volta un “Pattista”, così chiamiamo i cittadini che aderiscono ai patti, mi disse “A noi il patto dà dignità. Quando parliamo con il Rettore dell’Università di Siena per la cura delle mura noi ci sentiamo sullo stesso piano”. Ecco, il valore della dignità riconosciuto dai patti ai cittadini è straordinario».
Ci si chiede: perché dovrebbero essere i genitori a ridipingere le pareti della scuola, quando ci sono dei dipendenti pubblici pagati per farlo.
«È un’osservazione giusta, chi paga le tasse ha diritto di pretendere in cambio dei servizi efficienti. Però poi ci sono tante persone, secondo le nostre stime oscillano tra gli 800mila e il milione, che per vari motivi vogliono prendersi cura dei beni comuni e vanno aiutate creando strumenti idonei ad agevolarli, come appunto sono i patti di collaborazione. I cittadini attivi sono volontari che, anziché prendersi cura delle persone in difficoltà, come i volontari tradizionali, si prendono cura dei beni di tutti per migliorare oltre alla propria vita, anche quella di tutti gli altri. E così facendo producono degli effetti benefici che sono ancora più importanti degli effetti materiali. Per esempio, spesso gli insegnanti ci dicono che le pareti delle aule scolastiche dipinte dai genitori o dagli studenti restano pulite più a lungo. Evidentemente la cura condivisa del “bene comune scuola” ha un effetto educativo sugli studenti, che evitano di danneggiarlo».
Ecco perché il concetto di cura non va confuso con quello di manutenzione.
«Esattamente. È il ragionamento che noi di Labsus portiamo avanti da sempre. I giardinieri comunali fanno manutenzione, i cittadini si prendono cura. I gesti che fanno i giardinieri ed i cittadini attivi magari sono gli stessi, ma è la qualità dei rapporti fra le persone che cambia tutto. La cura dei beni produce effetti anche nelle persone, che così escono di casa, si incontrano, si divertono e magari poi alla fine del lavoro di cura del bene stanno insieme allegramente mangiando qualcosa, perché il cibo per noi italiani è importante... A chi ci dice che in fondo si tratta semplicemente di cittadini che curano le aiuole, noi rispondiamo che le aiuole curate è quello che si vede, poi c’è quello che i patti producono e che non si vede, cioè l’aumento della coesione sociale e del senso di appartenenza, l’integrazione degli stranieri che partecipano alla cura dei beni comuni, la produzione di capitale sociale, l’aiuto ad uscire dalla solitudine... e sappiamo quanto purtroppo sia aumentata la solitudine di milioni di persone durante la pandemia. E poi attraverso la realizzazione dei patti si crea un clima migliore nel quartiere, un senso di fiducia reciproca fra le persone e fra queste ultime e l’amministrazione comunale. La cura dei beni comuni non è un’attività politicamente etichettabile come di destra o di sinistra, ma non è politicamente neutrale. Una società fondata sulla cura dei beni comuni e quindi sulla fiducia reciproca è infatti ben diversa da una società fondata sulla paura, sul sospetto, sulla diffidenza».
Alla base del suo ragionamento vi è il passaggio da bene pubblico a bene comune. Un passaggio peraltro giuridicamente ancora non codificato e comunque per molti non di immediata comprensione. Eppure forse rappresenta il salto culturale più importante che andrebbe fatto oggi. Ci aiuta a renderlo più semplice?
«I beni privati sono miei, mi appartengono, i beni pubblici in teoria appartengono a tutti, ma in realtà in Italia non sono percepiti come “nostri”, bensì “di nessuno”, con il risultato che spesso sono saccheggiati per fini privati. I cittadini attivi si prendono cura con passione, competenza ed attenzione dei beni di tutti (quelli che per molti italiani sono beni “di nessuno”) come se fossero i propri, pur sapendo ovviamente che non potranno mai impadronirsene. Essi, che non ne sono e non ne saranno mai proprietari, si assumono nei confronti dei beni comuni la stessa responsabilità che si assume il proprietario, cioè il comune. È questa condivisione di responsabilità nei confronti di un bene pubblico che lo trasforma in un bene “comune”, che noi sentiamo come “nostro”. L’esempio più chiaro in questo senso è in una scuola di Roma, nel quartiere Esquilino (ma ormai esempi di scuole aperte e condivise ce ne sono a decine in tutta Italia). Da anni l’associazione genitori organizza il pomeriggio in quella scuola attività di ogni genere, corsi di lingue straniere, musica, eccetera. Ebbene, quella scuola dalle 8 alle 16 è un bene pubblico, dalle 16 alle 22 si trasforma in un bene comune».
Anche un bene privato può diventare bene comune?
«Accade di rado, ma può accadere. A Capannori, in provincia di Lucca, una società privata ha acquistato una villa con un grande parco e poi lo ha aperto al pubblico grazie ad un patto con l’amministrazione pubblica e un’associazione di cittadini. Insieme curano il parco e insieme lo usano. Quel parco è un bene privato che grazie al patto di collaborazione diventa un bene comune. Immobili vuoti e abbandonati in Italia ce ne sono milioni, in alcuni casi sono solo da abbattere, in molti casi invece sono edifici architettonicamente significativi, che grazie ai patti di collaborazione potrebbero essere recuperati e magari generare sviluppo e lavoro svolgendo al loro interno attività che rendano la loro gestione economicamente sostenibile».
Lo strumento dei patti sottintende un altro modo di essere cittadini, ma anche un altro modo di essere amministratori pubblici. Come si fa a creare consapevolezza nelle amministrazioni, cioè a spingere i comuni a credere in questi strumenti?
«Abbiamo notato che quasi sempre c’è grande disponibilità da parte degli amministratori eletti, che si assumono grandi responsabilità con risorse sempre più scarse e capiscono perfettamente l’utilità di uno strumento del genere. Le complicazioni nascono invece con i funzionari e i dirigenti, che essendo sottoposti ad un sistema di controlli molto stringenti da parte di molti organi di controllo diversi sono comprensibilmente impauriti dall’assunzione di responsabilità che inevitabilmente deriva da un modello amministrativo per loro nuovo e sconosciuto».
Come superare i “Si è sempre fatto così” e i “Non si può fare” che smontano gran parte delle iniziative di innovazione nelle pubbliche amministrazioni?
«Le soluzioni che si sono rivelate efficaci finora sono in genere di due tipi. La prima è cercare di convincere il sindaco o l’assessore del comune che ha adottato il nostro Regolamento a stipulare i primi patti, per esempio per la cura del verde o di uno spazio pubblico. Quando anche i dirigenti ed i funzionari si accorgono che i patti funzionano, sono semplici da usare, efficaci e che non comportano per loro responsabilità aggiuntive, la diffidenza si trasforma spesso in convinta adesione al nuovo modello di amministrazione condivisa. Un’altra possibilità è quella di far incontrare i dirigenti ed i funzionari che sono restii ad usare i patti con loro colleghi di altri comuni che invece stanno utilizzando con successo i patti di collaborazione. Si è visto che in genere la testimonianza positiva dei colleghi è sufficiente a superare le perplessità, soprattutto quando risulta chiaro che non si rischiano responsabilità aggiuntive».
Quali “armi” hanno i cittadini per monitorare e assicurarsi che l’amministrazione persegua i progetti condivisi? Esistono strumenti specifici, che vanno al di là della generale “responsabilità politica” degli eletti?
«L’articolo 5 del Regolamento, quello che disciplina i patti di collaborazione, prevede molteplici modalità di azione e strumenti per il monitoraggio, la rendicontazione e la misurazione dei risultati. Fra gli altri strumenti c’è una App che si chiama Oppidoo, sviluppata a Pistoia, facilissima da usare, che consente di co-progettare un patto e poi di seguirne l’iter dall’inizio alla fine. In generale, il miglior strumento di controllo è la trasparenza. Tutti devono poter seguire il percorso di un patto, compresi ovviamente i cittadini che non vi partecipano ma hanno diritto di seguirne l’attuazione, perché il bene oggetto del patto resta comunque pubblico e dunque di tutti. Inoltre la totale trasparenza dei patti di collaborazione elimina ogni possibilità di corruzione o di uso improprio degli strumenti dell’amministrazione condivisa. E questo è un altro vantaggio importante di questo modello di amministrazione rispetto a quello tradizionale».
Molti ritengono che la risposta che si darà alla crisi pandemica è la grande occasione per mobilitare il Paese e fornire un’idea diversa di società e di città, dove alle parole chiave “produzione” e “consumo” andranno affiancate con forza quelle di “prossimità”, “cura”, “innovazione”, “cooperazione”, “cittadinanza”. È una lettura della società che contrasta quella purtroppo crescente fondata invece su paura, incertezza, sfiducia nel prossimo e sostanziale chiusura. Anche per riappropriarsi di alcuni termini come “decoro” o “sicurezza” che ora paiono prerogativa della seconda. Che ne dice?
«Al posto di “decoro” dovremmo parlare di “bellezza” e quindi dire che i cittadini attivi si prendono cura non del “decoro”, bensì della bellezza delle nostre città. Non è un caso del resto se il mio ultimo libro si intitola appunto I custodi della bellezza! E per quanto riguarda la “sicurezza”, la sicurezza migliore in un parco, per esempio, è data non dal presidio di guardie armate, ma dall’essere un parco ben tenuto, frequentato da una molteplicità di utenti e quindi sicuro grazie alla presenza di tante persone. Ma, per tornare al modo con cui usciremo dalla crisi provocata dalla pandemia, il mio sogno è un Paese che si prende cura dei propri beni comuni e quindi di se stesso, un Paese in cui il tema della cura diventa centrale, perché di fatto già lo è nella vita delle nostre comunità. Ci sono infatti in primo luogo le attività di cura in ambito famigliare (peraltro quasi del tutto caricate sulle spalle delle donne) senza le quali il mondo si fermerebbe. Poi c’è tutto il mondo del volontariato, composto da persone straordinarie, che si prendono cura di persone in difficoltà anche se non fanno parte della loro cerchia famigliare. Infine ci sono le persone di cui abbiamo parlato finora, i cittadini che si prendono cura dei beni di tutti, per vivere meglio loro, ma facendo vivere meglio tutti. Tutti questi ambiti di intervento sono fondati sul concetto di cura. Purtroppo viviamo in una società in cui si ritiene che la gentilezza, che è una delle componenti del prendersi cura, fa rima con debolezza, in cui il confronto politico è deformato dall’uso dei social media, che distorcono sistematicamente opinioni e notizie, in cui candidarsi a ricoprire un ruolo pubblico significa esporsi ad attacchi anche sul piano personale. Ma per fortuna non c’è solo questo. C’è anche l’altra Italia, quella della cura in ambito famigliare, dei volontari, dei cittadini attivi, composta da centinaia di migliaia di persone che fanno del “prendersi cura” il centro della propria vita. Su questi bisogna fare affidamento per una ripresa del nostro Paese che anziché fare leva unicamente su parole chiave come “produzione” e “consumo”, faccia leva sulla “prossimità”, la “cura”, la “cooperazione” e la “cittadinanza”».
Gregorio Arena è stato professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università di Trento dal 1985 al 2015. È Presidente Emerito di Labsus, il Laboratorio per la sussidiarietà, che ha fondato nel 2005 e di cui è stato Presidente fino al 2021. Fra le pubblicazioni degli ultimi anni si segnalano, oltre a numerosi saggi in riviste giuridiche e agli editoriali in www.labsus.org le seguenti monografie: I CUSTODI DELLA BELLEZZA (Prendersi cura dei beni comuni. Un patto per l’Italia fra cittadini e istituzioni), 2020, Milano, Touring Club Editore; Per governare insieme: Il federalismo come metodo di governo (Verso nuove forme della democrazia), Cedam, 2011 a cura di, con Fulvio Cortese); Il valore aggiunto (Come la sussidiarietà può salvare l’Italia), Carocci, 2010 (a cura di, con Giuseppe Cotturri); Cittadini attivi (Un altro modo di pensare all’Italia), Laterza, 2006 (2011, 2° ed.).
Questo articolo è contenuto in A: numero 1 / dicembre 2021 – Foto: Francesca Tilio