Città che respira? Serve il coraggio della politica

La nostra intervista a Mirko Laurenti, curatore per Legambiente del rapporto Ecosistema Urbano che misura le performance ambientali dei capoluoghi di provincia italiani. Nel 2021 la fotografia di un Paese che fatica a stare al passo, non solo a causa della pandemia. E Ancona sprofonda in classifica…

Mirko Laurenti è il curatore, con Marina Trentin, dell’indagine di Legambiente Ecosistema Urbano, che ogni anno misura e racconta le performance ambientali dei capoluoghi di provincia italiani. L’ultimo rapporto, pubblicato nel novembre scorso, raccoglie i dati del 2020, un anno contrassegnato dall’emergenza Covid. Fotografa un Paese fermo dal punto di vista della vivibilità ambientale in ambito urbano, che addirittura regredisce sotto molti aspetti. Ma, come vedremo, non è solo colpa del Covid, non è tutta colpa del Covid.
Da 29 anni Ecosistema Urbano realizza una classifica basata su 18 parametri che valutano le performance delle varie città capoluogo del Paese in fatto di qualità dell’aria, delle acque, raccolta dei rifiuti, trasporti e mobilità, spazio verde urbano, efficientamento energetico, politiche ambientali in genere.
L’enorme lavoro portato avanti da Legambiente ha innescato negli anni un cambiamento profondo nel modo di misurare gli indicatori ambientali nelle città, è stato in grado di far leva sull’opinione pubblica e in molti casi di orientare le scelte della politica.
In un quadro generale assai critico, ha fatto rumore dalle nostre parti il crollo in classifica di Ancona, capace di perdere ben 29 posizioni rispetto all’anno precedente, passando dal 44esimo posto al 73esimo. Troppe auto in circolazione, troppe poche le piste ciclabili e le zone pedonali, troppi i morti lungo le nostre strade: queste le principali criticità rilevate, che purtroppo sono croniche. Pesano anche alcuni errori fatti nella comunicazioni dei dati, qualche mancanza nelle misurazioni, ma insomma è evidente che la nostra città avrebbe assoluto bisogno di rinverdire (è proprio il caso di dirlo) le politiche in tema di ambiente. E tanto avrebbe da fare anche in quanto alla capacità di comunicare con i cittadini. Saper trasmettere l’importanza di politiche virtuose e scelte di ampia prospettiva, incoraggiare comportamenti responsabili da parte dei cittadini, intercettare e sensibilizzare anche le fasce di popolazione più difficili da raggiungere, che poi quasi sempre sono quelle che hanno i maggiori problemi.
Delle azioni da mettere in campo, delle modalità e del coraggio necessario, abbiamo parlato con Mirko Laurenti.

Mirko Laurenti, fa parte dell'Ufficio Scientifico di Legambiente ed è responsabile del rapporto Ecosistema Urbano dell'associazione ambientalista sin dal 2002.

Ciao Mirko, che quadro generale emerge dall’ultimo rapporto Ecosistema Urbano? Come sta l’Italia?

«Il report pubblicato a fine 2021 si basa su dati rilevati nel 2020, un anno particolare a causa della pandemia. Ne consegue che la foto scattata è abbastanza impietosa, ritrae ad esempio un Paese che ha abbandonato il trasporto pubblico. Attenzione però a dare la colpa solo alla pandemia, perchè se si leggono bene i numeri ci si accorge che non dappertutto la situazione è la medesima. Cito due casi, quelli di Milano e di Palermo, in cui pur nel disastro causato dal Covid, il settore dei trasporti pubblici ha tenuto botta e non è crollato come in quasi tutte le altre città d’Italia. Milano, lo sappiamo, è un caso a parte nella geografia del nostro Paese, è la città più europea anche dal punto di vista della mobilità. Già da diversi anni ha intrapreso un percorso che l’ha portata ad aumentare lo spazio destinato a pedoni e ciclisti, e contestualmente a limitare la circolazione di mezzi privati nelle aree del centro. Azioni che rispondono ad un preciso indirizzo politico. E queste azioni hanno fatto sì che anche nel momento in cui la circolazione dei mezzi pubblici era vietata a causa della pandemia, i cittadini abbiano reagito non riprendendo l’auto, ma optando ad esempio per le bici e i monopattini, visto che già era disponibile un efficiente servizio di sharing e le persone erano abituate ad utilizzarlo».

L’uso del monopattino e delle piattaforme di sharing è aumentato proprio durante la pandemia.

«Ecco, se possiamo trovare un lato positivo sulla mobilità di questo periodo è proprio questo. Certo solo per alcune città. Per il resto vediamo purtroppo un Paese statico, un Paese in cui l’inquinamento atmosferico fa rilevare ancora indici troppo alti».

Citavi anche il caso di Palermo.

«Sì, ovviamente una città che non ha nulla a che vedere con Milano, e che pure negli ultimi tempi ha investito sulla mobilità alternativa. E questi investimenti hanno fatto sì che durante la pandemia gli indici relativi al trasporto pubblico, certo ancora non esaltanti, non sono sprofondati, come invece purtroppo successo da altre parti».

Possiamo dire in generale che il Covid ha aggravato ancora di più una situazione già critica di suo.

«Sì, diciamo che il Covid ha accelerato le criticità già esistenti. Poi ci sono state città che hanno risposto meglio, come appunto Milano, oppure Trento, Reggio Emilia e Mantova, che infatti sono sul “podio” della classifica di Ecosistema Urbano. Altre città purtroppo sono state totalmente affossate dalla situazione d’emergenza. Palermo, nonostante quanto detto sopra, ha per altri versi numeri poco edificanti. O la stessa Torino, in cui gli indici di inquinamento sono allarmanti».

Eppure siamo stati a lungo in casa, in smart working, con le auto ferme in garage.

«Già, peccato che appena siamo usciti di casa abbiamo recuperato in fretta le cattive abitudini di prima, annullando in poco tempo gli effetti benefici del lockdown».

Le grandi città in Italia sono poche e rappresentano un’eccezione. Tra queste Roma è un caso ancor più particolare per tanti motivi. La maggior parte dei capoluoghi di provincia italiani fanno invece i conti con dimensioni più contenute, e tra queste vi è Ancona.

«Vero, la spina dorsale del nostro Paese è rappresentata da città medio piccole, favorite ad esempio da un carico di abitanti modesto, da un traffico ridotto, da minore inquinamento. Questo però dovrebbe spingerle a fare di più e meglio in tema di cura dell’ambiente, ad agire in modo più deciso approfittando delle situazioni favorevoli. Invece, a parte rare eccezioni, regna ancora un certo immobilismo».

Ecco, veniamo ad Ancona. Abbiamo visto che le nostre performance sono peggiorate rispetto al passato. Ciò si deve in parte ad una mancata (o errata) comunicazione dei dati che ci fa sembrare più “pecore nere” di quanto in realtà siamo, e in parte però a criticità effettive, in particolare sul tema della mobilità.

«Ancona paga un carico non secondario derivante dall’attività di un grande porto inglobato nel centro urbano, ma non c’è dubbio che potrebbe e dovrebbe fare di più. E già da parecchio tempo».

Se si guarda agli altri capoluoghi marchigiani, pesa il confronto con Pesaro, che invece viene citata come città virtuosa anche dalla stessa Legambiente. Però ad Ancona si usa spesso dire “qui non siamo a Pesaro” proprio per indicare alcune differenze sostanziali, specie nella conformazione del territorio e dell’urbanizzazione.

«Potrei citarvi però il caso di Macerata, cittadina non certo pianeggiante, in cui si nota negli ultimi tempi un’inversione di tendenza su aspetti importanti, come nuove zone ciclopedonali, maggiori limitazioni al traffico, investimenti in piantumazione e aree verdi. Per quanto invece riguarda Pesaro, certo è favorita da una posizione felice, ma non c’è dubbio che negli ultimi 12 anni le scelte strategiche di amministratori capaci e avveduti l’hanno portata ad essere presa d’esempio non solo nelle Marche, ma in Italia e all’estero. Pensiamo alla Bicipolitana, o alla vasta pedonalizzazione del centro storico, o al premio ricevuto da Legambiente per l’efficientamento energetico di una scuola».

Anche ad Ancona c’è una scuola totalmente autosufficiente dal punto di vista energetico. Ecco, non è che poi a volte pesa soprattutto la capacità e la bravura di sapersi raccontare?

«Può darsi. Pesaro ha certamente saputo comunicare molto bene le sue scelte anche se resta il fatto che le cose non le ha solo raccontate, le ha fatte per davvero e bene. Altri invece, proprio per paura di pagare pegno elettorale, rinunciano alle scelte più coraggiose e di prospettiva».

Il tema del coraggio della politica si lega necessariamente a quello del coinvolgimento dei cittadini. Tra i fattori evidenziati da Legambiente in tema di miglioramento energetico c’è la necessità di coinvolgere gli stakeholder e incentivare il dibattito pubblico. Vedi progressi da questo punto di vista negli ultimi anni?

«L’aspetto che è migliorato di più negli anni è proprio quello dell’attenzione che chi amministra rivolge alle istanze dei cittadini. Certo, in molti casi, è la legge a rendere obbligatorio tale ascolto, pensiamo ad esempio ai PUMS. Ciò significa che anche il legislatore centrale ormai è sempre più orientato verso modelli di partecipazione diffusa e di qualità».

Alcuni esempi?

«Penso al Grab di Roma, il Grande raccordo anulare delle biciclette. Un progetto lanciato a suo tempo da cittadini e associazioni, tra cui Legambiente, poi finanziato dal Ministero, e che ora sta per diventare realtà. E sarà un grande esempio di partecipazione, perché i cittadini sono stati coinvolti nella fase di progettazione e hanno apportato modifiche che hanno reso il tracciato senz’altro più fruibile e utile. Questo secondo me è un esempio di come si dovrebbero fare le cose. Un altro è la Tramvia di Firenze. Poi è evidente che non sempre la partecipazione viene incoraggiata, perchè potrebbe non giovare alla politica. Noto però che un po’ ovunque le cose stanno migliorando, sulla scia di quanto chiesto in primis da Legambiente, ma non solo. Negli anni hanno preso vita comitati di cittadini ottimamente organizzati, che si avvalgono della collaborazione di professionisti, in grado di sviluppare anche ottimi progetti di Citizen Science».

Va dato atto a Legambiente di essere riuscita negli anni a incentivare i Comuni a misurarsi e a raccontarsi. Questo è, tra gli altri, un grande merito. In Ecosistema Urbano potrebbero trovare posto indicatori che misurano il coinvolgimento dei cittadini e i progressi in fatto di Citizen Science, ovvero la capacità di stimolare cittadini a effettuare ricerche scientifiche e monitoraggi sulle città che abitano?

«Per quanto riguarda il tema della partecipazione, un indice esisteva poi lo abbiamo tolto perché vedevamo che più o meno i parametri erano rispettati ovunque, ma poi era difficile stabilire oggettivamente chi lo faceva bene e chi lo sbandierava soltanto. Stessa difficoltà più o meno potrebbe derivare dalla misurazione dei progetti di Citizen Science attivati in una determinata città. Ma chiaramente il tema della partecipazione è tra quelli che ci sta più a cuore e che monitoriamo sempre con attenzione anche attraverso strumenti come Ecosistema Urbano»

Città dei 15 minuti: secondo te è un miraggio, uno slogan buono per le campagne elettorali, o un orizzonte reale?

«Certamente un obiettivo alla portata. Se ci sta provando e riuscendo Milano, con tutte le difficoltà del caso, vuol dire che per le città più piccole e meno problematiche è ancora più fattibile. Ciò che Legambiente ha sempre rimarcato è che le città italiane non sono fatte per le auto. I nostri centri storici sono stati pensati e costruiti per un traffico di pedoni e cavalli, non certo per farci entrare 4mila macchine in un’ora. Quindi se c’è la volontà, è certamente possibile tornare alle città dei nostri nonni. Un’auto la si usa in media per fare tratte da 5-7 chilometri. Una distanza esigua, che può benissimo essere coperta con mezzi più virtuosi: a piedi, in bici, in autobus. Milano ci sta provando davvero, Gualtieri, il nuovo sindaco di Roma, in campagna elettorale ha fatto dichiarazioni impegnative in tal senso».

In campagna elettorale vale tutto!

«Certo, però è evidente che il tema è entrato ormai stabilmente nelle agende politiche, sui media se ne parla, le giovani generazioni hanno la questione molto a cuore e prima o poi bisognerà farci i conti. Secondo me sono tutti segnali molto importanti».

Anche perché ora forse il PNRR porterà nelle casse dei comuni soldi che negli ultimi anni non c’erano più.

«Esatto. A condizione che sia il PNRR dei sindaci e non solo del governo centrale. Non può essere Roma a dire ad esempio “dovete comprare più autobus”, perché sono i sindaci di Ancona, Como e Lecce a sapere se c’è bisogno di autobus o di altro».

A tal proposito, anche nei Comuni ci sarebbe bisogno di competenze tecniche e amministrative che spesso mancano.

«Vero e in questo caso i Ministeri dovrebbero migliorare nella comunicazione e nell’assistenza. Mettere effettivamente i territori nelle condizioni di decidere come spendere al meglio i soldi»

Poi serve la politica e il coraggio dei sindaci.

«Servono sindaci che non cerchino alibi e un governo che non fornisca alibi».

 

 

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Foto di copertina: uno scorcio del quartiere Archi di Francesca Bianchelli


Patti di collaborazione, così un bene pubblico diventa bene comune. E i cittadini tornano protagonisti

La nostra intervista al fondatore e presidente emerito di “Labsus” Gregorio Arena. A lui si deve l’invenzione di un potente ed efficace strumento di sussidiarietà e amministrazione condivisa

Da qualche settimana ha lasciato la presidenza di Labsus, il Laboratorio per la Sussidiarietà che ha fondato 15 anni fa e con il quale ha costruito un nuovo potente strumento di cittadinanza attiva, i patti di collaborazione per la gestione dei beni comuni. «È solo un passo di lato -chiarisce Gregorio Arena- dopo tanti anni un ricambio è fisiologico e necessario, anche perché non è buon segno quando un’associazione si identifica troppo con una persona. In ogni caso sono stato eletto presidente emerito, quindi continuerò a far parte del direttivo e ad impegnarmi per Labsus». Un’attività che il professor Arena dopo la pensione porta avanti a tempo pieno e con grande vigore. Fino a 2 anni fa percorreva migliaia di chilometri su e giù per lo Stivale, incontrando istituzioni e cittadini interessati ad approfondire il concetto di amministrazione condivisa. La pandemia lo ha costretto a fermarsi per un po’, ma ha già ricominciato a programmare i prossimi viaggi, e anzi prima di iniziare questa intervista su Zoom ci dà appuntamento a presto per una chiacchierata dal vivo ad Ancona, una città che finora non ha saputo comprendere le potenzialità e la straordinarietà dei patti di collaborazione. Allora cerchiamo di capirne un po’ di più.

Professore, per anni la partecipazione dei cittadini alla Pubblica Amministrazione è stata una chimera sempre evocata ma quasi mai raggiunta e praticata. A forza solo di celebrarla ed esaltarla vanamente nel tempo ha perso di significato e fascino. Vero è che sino a qualche anno fa gli strumenti a disposizione degli amministratori locali erano piuttosto inadeguati. Questo però sino al 22 febbraio 2014, da quando cioè il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni è stato presentato a Bologna e messo a disposizione di tutti i comuni italiani. Da allora, come lei ci dice “non c’è più alibi per coloro che preferiscono mantenere i cittadini nel ruolo di amministrati, utenti, assistiti e così via, anziché farli diventare, insieme con le amministrazioni, protagonisti nella soluzione dei problemi della comunità”. Ci spiega come effettivamente funzionano il Regolamento ed i patti di collaborazione e perché questi strumenti sono così efficaci?
«Sono efficaci perché sono semplici, non richiedono competenze particolari e sono alla portata di tutti. In Italia si parla di partecipazione dalla metà degli anni ‘70 del secolo scorso, ma è un concetto che ha dato luogo a molteplici interpretazioni. In Francia, per esempio, è in vigore una legge sul Debat Public in base alla quale ogni progetto di opera pubblica deve essere preliminarmente discusso con i cittadini prima di essere realizzato. In Italia invece le amministrazioni adottano, del tutto legittimamente, decisioni importanti che riguardano una collettività sulla base della delega ricevuta al momento del voto (per esempio sulla localizzazione di un inceneritore o di una discarica) e poi sono costrette a confrontarsi (a volte anche in maniera conflittuale) con i comitati di cittadini che nascono per opporsi a quel progetto. Sarebbe preferibile coinvolgere i cittadini prima di decidere, anche se ovviamente è impossibile pensare di poter organizzare assemblee per ogni decisione, anche perché ci sono diversi problemi. Innanzitutto quello dell’asimmetria informativa, a causa del quale gli amministratori hanno competenze e informazioni che i cittadini non possono avere. E poi ancora c’è la questione della legittimità delle assemblee di cittadini, in altri termini, chi è legittimato a parteciparvi per parlare (e decidere) a nome dell’intera comunità? A volte si creano situazioni per cui alcuni, i cosiddetti professionisti della partecipazione, vanno a tutte le assemblee pretendendo di parlare a nome di tutti, pur non avendo alcun mandato. Insomma i tentativi di far partecipare i cittadini alla vita pubblica con questi strumenti spesso si arenano su queste ed altre difficoltà. Il modello dei patti di collaborazione proposto da Labsus è invece molto semplice, perché cittadini e amministrazione comunale si incontrano non per decidere sulla localizzazione di un’opera pubblica, ma su come soddisfare insieme un bisogno collettivo: la sistemazione di una piazzetta, le pareti di una scuola da ridipingere, un’area verde piena di rifiuti da ripulire e trasformare in un parchetto, un rudere da recuperare per farne un luogo attraente e utile. Tutte cose estremamente concrete e facilmente realizzabili. Nella realizzazione dei patti di collaborazione c’è sempre una prima fase di progettazione, che diventa di fatto una co-progettazione, in cui i cittadini imparano a confrontarsi fra loro, ad organizzare una riunione, predisporre un ordine del giorno, discutere insieme.... insomma i patti sono una piccola scuola di democrazia. Dopo di che viene stipulato con l’amministrazione comunale un patto con precise assunzioni di responsabilità sia da parte dell’amministrazione, sia dei cittadini, con tempi di realizzazione, assunzione di oneri, dettaglio di spesa, il tutto in piena trasparenza, perché tutti devono poter conoscere come si interviene su quelli che sono beni pubblici, cioè di tutti».

Da cittadino coinvolto nei processi decisionali della PA a cittadino “custode attivo” (come lei lo definisce), alleato dell’amministrazione locale, in grado di produrre effetti vantaggiosi nella trasformazione della comunità, nel miglioramento dei servizi alle persone, nella cura dell’habitat, nella costruzione di socialità e finanche sotto il profilo economico. Un ruolo ed una funzione del tutto nuovi e innovativi. È così?
«È così, certamente. È un ruolo del tutto nuovo, di una concretezza estrema, perché i cittadini attivi sono anche molto operativi, non si limitano a discutere ma incidono sulla realtà prendendosi cura dei beni comuni. Ed è un ruolo ad alta densità di relazioni umane, in cui la cura dei beni comuni diventa al tempo stesso cura dei rapporti fra le persone, spesso persone sole, che grazie ai patti socializzano tra loro. In questo periodo terribile della pandemia noi di Labsus abbiamo visto che c’è anche un effetto terapeutico dei patti, da non sottovalutare: le persone si aggregano per fare qualcosa di utile per la collettività ed al tempo stesso fanno qualcosa di utile per sé stessi, stanno meglio, si sentono utili, si divertono. Un altro aspetto positivo dei patti di collaborazione è la centralità che essi attribuiscono ai cittadini ed alla loro iniziativa, perché il principio di sussidiarietà sancito dalla Costituzione all’art. 118, ultimo comma dispone che la Repubblica deve favorire le autonome iniziative dei cittadini, ma se questi ultimi non si attivano, la Repubblica non ha niente da favorire. Quindi i cittadini diventano protagonisti della realizzazione di un principio costituzionale! A Siena da anni è in vigore un patto per la cura delle antiche mura cittadine. Una volta un “Pattista”, così chiamiamo i cittadini che aderiscono ai patti, mi disse “A noi il patto dà dignità. Quando parliamo con il Rettore dell’Università di Siena per la cura delle mura noi ci sentiamo sullo stesso piano”. Ecco, il valore della dignità riconosciuto dai patti ai cittadini è straordinario».

Ci si chiede: perché dovrebbero essere i genitori a ridipingere le pareti della scuola, quando ci sono dei dipendenti pubblici pagati per farlo.
«È un’osservazione giusta, chi paga le tasse ha diritto di pretendere in cambio dei servizi efficienti. Però poi ci sono tante persone, secondo le nostre stime oscillano tra gli 800mila e il milione, che per vari motivi vogliono prendersi cura dei beni comuni e vanno aiutate creando strumenti idonei ad agevolarli, come appunto sono i patti di collaborazione. I cittadini attivi sono volontari che, anziché prendersi cura delle persone in difficoltà, come i volontari tradizionali, si prendono cura dei beni di tutti per migliorare oltre alla propria vita, anche quella di tutti gli altri. E così facendo producono degli effetti benefici che sono ancora più importanti degli effetti materiali. Per esempio, spesso gli insegnanti ci dicono che le pareti delle aule scolastiche dipinte dai genitori o dagli studenti restano pulite più a lungo. Evidentemente la cura condivisa del “bene comune scuola” ha un effetto educativo sugli studenti, che evitano di danneggiarlo».

Ecco perché il concetto di cura non va confuso con quello di manutenzione.
«Esattamente. È il ragionamento che noi di Labsus portiamo avanti da sempre. I giardinieri comunali fanno manutenzione, i cittadini si prendono cura. I gesti che fanno i giardinieri ed i cittadini attivi magari sono gli stessi, ma è la qualità dei rapporti fra le persone che cambia tutto. La cura dei beni produce effetti anche nelle persone, che così escono di casa, si incontrano, si divertono e magari poi alla fine del lavoro di cura del bene stanno insieme allegramente mangiando qualcosa, perché il cibo per noi italiani è importante... A chi ci dice che in fondo si tratta semplicemente di cittadini che curano le aiuole, noi rispondiamo che le aiuole curate è quello che si vede, poi c’è quello che i patti producono e che non si vede, cioè l’aumento della coesione sociale e del senso di appartenenza, l’integrazione degli stranieri che partecipano alla cura dei beni comuni, la produzione di capitale sociale, l’aiuto ad uscire dalla solitudine... e sappiamo quanto purtroppo sia aumentata la solitudine di milioni di persone durante la pandemia. E poi attraverso la realizzazione dei patti si crea un clima migliore nel quartiere, un senso di fiducia reciproca fra le persone e fra queste ultime e l’amministrazione comunale. La cura dei beni comuni non è un’attività politicamente etichettabile come di destra o di sinistra, ma non è politicamente neutrale. Una società fondata sulla cura dei beni comuni e quindi sulla fiducia reciproca è infatti ben diversa da una società fondata sulla paura, sul sospetto, sulla diffidenza».

Alla base del suo ragionamento vi è il passaggio da bene pubblico a bene comune. Un passaggio peraltro giuridicamente ancora non codificato e comunque per molti non di immediata comprensione. Eppure forse rappresenta il salto culturale più importante che andrebbe fatto oggi. Ci aiuta a renderlo più semplice?
«I beni privati sono miei, mi appartengono, i beni pubblici in teoria appartengono a tutti, ma in realtà in Italia non sono percepiti come “nostri”, bensì “di nessuno”, con il risultato che spesso sono saccheggiati per fini privati. I cittadini attivi si prendono cura con passione, competenza ed attenzione dei beni di tutti (quelli che per molti italiani sono beni “di nessuno”) come se fossero i propri, pur sapendo ovviamente che non potranno mai impadronirsene. Essi, che non ne sono e non ne saranno mai proprietari, si assumono nei confronti dei beni comuni la stessa responsabilità che si assume il proprietario, cioè il comune. È questa condivisione di responsabilità nei confronti di un bene pubblico che lo trasforma in un bene “comune”, che noi sentiamo come “nostro”. L’esempio più chiaro in questo senso è in una scuola di Roma, nel quartiere Esquilino (ma ormai esempi di scuole aperte e condivise ce ne sono a decine in tutta Italia). Da anni l’associazione genitori organizza il pomeriggio in quella scuola attività di ogni genere, corsi di lingue straniere, musica, eccetera. Ebbene, quella scuola dalle 8 alle 16 è un bene pubblico, dalle 16 alle 22 si trasforma in un bene comune».

Anche un bene privato può diventare bene comune?
«Accade di rado, ma può accadere. A Capannori, in provincia di Lucca, una società privata ha acquistato una villa con un grande parco e poi lo ha aperto al pubblico grazie ad un patto con l’amministrazione pubblica e un’associazione di cittadini. Insieme curano il parco e insieme lo usano. Quel parco è un bene privato che grazie al patto di collaborazione diventa un bene comune. Immobili vuoti e abbandonati in Italia ce ne sono milioni, in alcuni casi sono solo da abbattere, in molti casi invece sono edifici architettonicamente significativi, che grazie ai patti di collaborazione potrebbero essere recuperati e magari generare sviluppo e lavoro svolgendo al loro interno attività che rendano la loro gestione economicamente sostenibile».

Lo strumento dei patti sottintende un altro modo di essere cittadini, ma anche un altro modo di essere amministratori pubblici. Come si fa a creare consapevolezza nelle amministrazioni, cioè a spingere i comuni a credere in questi strumenti?
«Abbiamo notato che quasi sempre c’è grande disponibilità da parte degli amministratori eletti, che si assumono grandi responsabilità con risorse sempre più scarse e capiscono perfettamente l’utilità di uno strumento del genere. Le complicazioni nascono invece con i funzionari e i dirigenti, che essendo sottoposti ad un sistema di controlli molto stringenti da parte di molti organi di controllo diversi sono comprensibilmente impauriti dall’assunzione di responsabilità che inevitabilmente deriva da un modello amministrativo per loro nuovo e sconosciuto».

Come superare i “Si è sempre fatto così” e i “Non si può fare” che smontano gran parte delle iniziative di innovazione nelle pubbliche amministrazioni?
«Le soluzioni che si sono rivelate efficaci finora sono in genere di due tipi. La prima è cercare di convincere il sindaco o l’assessore del comune che ha adottato il nostro Regolamento a stipulare i primi patti, per esempio per la cura del verde o di uno spazio pubblico. Quando anche i dirigenti ed i funzionari si accorgono che i patti funzionano, sono semplici da usare, efficaci e che non comportano per loro responsabilità aggiuntive, la diffidenza si trasforma spesso in convinta adesione al nuovo modello di amministrazione condivisa. Un’altra possibilità è quella di far incontrare i dirigenti ed i funzionari che sono restii ad usare i patti con loro colleghi di altri comuni che invece stanno utilizzando con successo i patti di collaborazione. Si è visto che in genere la testimonianza positiva dei colleghi è sufficiente a superare le perplessità, soprattutto quando risulta chiaro che non si rischiano responsabilità aggiuntive».

Quali “armi” hanno i cittadini per monitorare e assicurarsi che l’amministrazione persegua i progetti condivisi? Esistono strumenti specifici, che vanno al di là della generale “responsabilità politica” degli eletti?
«L’articolo 5 del Regolamento, quello che disciplina i patti di collaborazione, prevede molteplici modalità di azione e strumenti per il monitoraggio, la rendicontazione e la misurazione dei risultati. Fra gli altri strumenti c’è una App che si chiama Oppidoo, sviluppata a Pistoia, facilissima da usare, che consente di co-progettare un patto e poi di seguirne l’iter dall’inizio alla fine. In generale, il miglior strumento di controllo è la trasparenza. Tutti devono poter seguire il percorso di un patto, compresi ovviamente i cittadini che non vi partecipano ma hanno diritto di seguirne l’attuazione, perché il bene oggetto del patto resta comunque pubblico e dunque di tutti. Inoltre la totale trasparenza dei patti di collaborazione elimina ogni possibilità di corruzione o di uso improprio degli strumenti dell’amministrazione condivisa. E questo è un altro vantaggio importante di questo modello di amministrazione rispetto a quello tradizionale».

Molti ritengono che la risposta che si darà alla crisi pandemica è la grande occasione per mobilitare il Paese e fornire un’idea diversa di società e di città, dove alle parole chiave “produzione” e “consumo” andranno affiancate con forza quelle di “prossimità”, “cura”, “innovazione”, “cooperazione”, “cittadinanza”. È una lettura della società che contrasta quella purtroppo crescente fondata invece su paura, incertezza, sfiducia nel prossimo e sostanziale chiusura. Anche per riappropriarsi di alcuni termini come “decoro” o “sicurezza” che ora paiono prerogativa della seconda. Che ne dice?
«Al posto di “decoro” dovremmo parlare di “bellezza” e quindi dire che i cittadini attivi si prendono cura non del “decoro”, bensì della bellezza delle nostre città. Non è un caso del resto se il mio ultimo libro si intitola appunto I custodi della bellezza! E per quanto riguarda la “sicurezza”, la sicurezza migliore in un parco, per esempio, è data non dal presidio di guardie armate, ma dall’essere un parco ben tenuto, frequentato da una molteplicità di utenti e quindi sicuro grazie alla presenza di tante persone. Ma, per tornare al modo con cui usciremo dalla crisi provocata dalla pandemia, il mio sogno è un Paese che si prende cura dei propri beni comuni e quindi di se stesso, un Paese in cui il tema della cura diventa centrale, perché di fatto già lo è nella vita delle nostre comunità. Ci sono infatti in primo luogo le attività di cura in ambito famigliare (peraltro quasi del tutto caricate sulle spalle delle donne) senza le quali il mondo si fermerebbe. Poi c’è tutto il mondo del volontariato, composto da persone straordinarie, che si prendono cura di persone in difficoltà anche se non fanno parte della loro cerchia famigliare. Infine ci sono le persone di cui abbiamo parlato finora, i cittadini che si prendono cura dei beni di tutti, per vivere meglio loro, ma facendo vivere meglio tutti. Tutti questi ambiti di intervento sono fondati sul concetto di cura. Purtroppo viviamo in una società in cui si ritiene che la gentilezza, che è una delle componenti del prendersi cura, fa rima con debolezza, in cui il confronto politico è deformato dall’uso dei social media, che distorcono sistematicamente opinioni e notizie, in cui candidarsi a ricoprire un ruolo pubblico significa esporsi ad attacchi anche sul piano personale. Ma per fortuna non c’è solo questo. C’è anche l’altra Italia, quella della cura in ambito famigliare, dei volontari, dei cittadini attivi, composta da centinaia di migliaia di persone che fanno del “prendersi cura” il centro della propria vita. Su questi bisogna fare affidamento per una ripresa del nostro Paese che anziché fare leva unicamente su parole chiave come “produzione” e “consumo”, faccia leva sulla “prossimità”, la “cura”, la “cooperazione” e la “cittadinanza”».

 

Gregorio Arena è stato professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università di Trento dal 1985 al 2015. È Presidente Emerito di Labsus, il Laboratorio per la sussidiarietà, che ha fondato nel 2005 e di cui è stato Presidente fino al 2021. Fra le pubblicazioni degli ultimi anni si segnalano, oltre a numerosi saggi in riviste giuridiche e agli editoriali in www.labsus.org le seguenti monografie: I CUSTODI DELLA BELLEZZA (Prendersi cura dei beni comuni. Un patto per l’Italia fra cittadini e istituzioni), 2020, Milano, Touring Club Editore; Per governare insieme: Il federalismo come metodo di governo (Verso nuove forme della democrazia), Cedam, 2011 a cura di, con Fulvio Cortese); Il valore aggiunto (Come la sussidiarietà può salvare l’Italia), Carocci, 2010 (a cura di, con Giuseppe Cotturri); Cittadini attivi (Un altro modo di pensare all’Italia), Laterza, 2006 (2011, 2° ed.).

 


Questo articolo è contenuto in A: numero 1 / dicembre 2021  – Foto: Francesca Tilio