Nuove prospettive, lo stesso impegno

Il numero in giallo di A - Ancona rivista a colori, terzo della serie, si apre come di consueto con l'editoriale del nostro fondatore Carlo Maria Pesaresi. Una panoramica tra i contenuti della rivista che potete scaricare in formato digitale sul nostro sito oppure richiedere in formato cartaceo nelle principali librerie della città.

Che questo piccolo miracolo continui a ripetersi ci riempie di gioia. In questo assai poco disciplinato ordine di uscite, è passato oltre un anno dallo scorso numero. Da allora, nel mezzo, di cose ne sono accadute. Con molti altri compagni di viaggio, audaci e generosi, abbiamo rincorso il sogno ed il desiderio di amministrare una città ed una comunità aperta, proiettata in un futuro fatto di innovazione, cultura, cura e solidarietà. Capita però che i sogni e i desideri prendano altre strade, a volte per un soffio, altre per troppe illusioni o altre ancora semplicemente per sbagli grossolani. E allora ci ritroviamo in un presente diverso e più difficile, che però non smette di sfidarci, che ci sollecita a restare, che continua a provocarci e ci chiede di ricostruire, di ripartire con contenuti, linguaggi e metodi diversi, più coraggiosi.

Il progetto A: Ancona ri|vista a colori, sia su carta che su web, diventa, allora e sempre più, uno dei luoghi da cui ripartire. Uno spazio fisico e virtuale, a disposizione, dove interrogarsi sulla città, dentro e fuori il recinto, un campo dove poter realizzare in modo aperto un confronto sempre più politico sulle urgenze che sono davanti a noi, sulla necessità di una ricomposizione, di una nuova posa delle fondamenta, visto che lì qualcosa si è rotto.

Ecco perché questo numero è giallo. È il colore della luce, dell’energia, della positività, della creatività, della voglia di agire. Nel codice nautico il giallo è anche il colore che segnala l’emergenza e questo, in una città di mare, è doveroso sottolinearlo.

Ecco perché le illustrazioni (splendide davvero) oggi diventano più ruvide, più intense, più forti. Ci serve uno shock che ci obblighi a cambiare prospettiva, a dormire per un po’ in modo scomodo, che ci venga il torcicollo alla mattina. E il gruppo di artisti convocati a raccolta con eccezionale maestria da Micol Mancini ci è sembrato perfetto per soddisfare il nostro desiderio.

Per illustrare l'editoriale di Carlo Pesaresi abbiamo scelto quest'opera di Simone Manfrini, tra gli illustratori protagonisti del Festival Branchie che impreziosiscono il terzo numero di A

 

E questo piccolo miracolo, ancora una volta sapientemente impaginato da quei rigorosi, lucidi ed incoscienti creativi di RossodiGrana, sceglie di ripartire da tre grandi temi che ne costituiscono l’ossatura e a cui dedichiamo lo spazio più ampio: Cultura, Salute, Periferia.

Un numero densissimo.

Che racconta anche di “Ancona a Colori”, comunità politica sorta a valle degli incontri, delle riflessioni, delle cose belle e delle delusioni che hanno attraversato le primarie del centrosinistra e che ora inizia a muovere i primi passi, divenendo luogo di sperimentazione politica autonomo ed innovativo.

Che parla di “Nonturismo”, libro, guida e progetto di Sineglossa, che (finalmente) spic- ca nel panorama un po’ trito e ritrito delle politiche turistiche che circolano nel nostro paese e volge lo sguardo verso una riflessione collettiva sul valore delle comunità, su come coltivare uno scambio intimo e rispettoso tra coloro che visitano e le persone e l’ambiente che vengono visitati.

In cui la nostra cartografia della cura, la “Mappa dei tesori”, continua ad arricchirsi di punti che narrano sempre più di quella Ancona che non molla affatto la sua radicata storia solidaristica e di attenzione ai diritti ed alla cittadinanza attiva e che mostra il lato più bello e forse ancora troppo nascosto di sé.

Dove, un’intensa riflessione di Gaetano Tortorella sui mille volti del quartiere Piano ed

il terzo capitolo della “Storia del capitale sociale anconetano” curata da Giorgio Mangani, completano mirabilmente il quadro degli interventi.

Moltissimi davvero i ringraziamenti non di rito, bensì speciali.

All’indomito comitato di redazione tutto ed a Matteo Belluti che lo conduce per mano. A coloro, singoli o organizzazioni collettive, che abbiamo citato sopra e che abbracciamo.

Al meraviglioso gruppo di Ankonistan, per averci accompagnato, con il suo progetto di narrazione partecipata “AnQnetani”, alla scoperta di un pezzo di città costretta, suo malgrado, dentro un immaginario di quartieri dormitorio e anonimi e a Romina Aguzzi, che di quel gruppo è anima, per averci donato le sue fotografie.

A Valentina Conti, coraggiosa e testarda editrice, che ci ha ospitato nella sua bella libreria per ragionare di politiche e proget- tazione culturale, tra l’esigenza di relazionarsi con il mondo esterno e la necessità di una riflessione profonda sulla dimensione e sull’identità locale. Ed agli amici Damiano Aliprandi, Federico Bomba, Mara Cerquetti, Pierluigi Feliciati, Tommaso Sorichetti e Simona Teoldi che ci sono venuti a trovare e che quel dibattito hanno animato.

A Claudio Maffei per il suo prezioso lavoro, prima a puntate sul sito ed ora qui condensato su carta, con cui prova a tirare le fila di un’Ancona città della salute tra passato, presente e (quale?) futuro.

A Giorgio Mangani per l’impegno che, da intellettuale raffinato qual è, ha rivolto a questo numero e per continuare, da editore, ad aprirci la porta del suo Studio, ar- rampicato lassù a Capodimonte.

A tutti voi che ci leggete e che ci auguriamo vogliate sempre più essere parte attiva e protagonista di questo piccolo miracolo.

 


Ancona Città della Salute/5: la città è sana se la salute diventa bene comune

Nelle quattro precedenti puntate del viaggio nella sanità cittadina con Claudio Maffei, abbiamo parlato nell’ordine: di Ancona che “perde” i suoi ospedali che vengono portati fuori della città, della Casa della Comunità che nascerà al vecchio Umberto I, dell'evoluzione dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria “di Ancona” diventata “delle Marche” e delle prospettive che riguardano l’INRCA, un’altra “istituzione ” sanitaria della città in cui si intrecciano una componente assistenziale e una di ricerca. C'è una nuova puntata, nella quale ci soffermiamo sul concetto di “città sana”.

Cosa voglia dire essere (o provare a essere) “città sana” lo troviamo in un “manifesto per l’impegno sulla salute nelle città come bene comune” la cui stesura e revisione è stata realizzata di recente grazie al contribuito di oltre 200 esperti e 36 tra Istituzioni, enti, università, società scientifiche, associazioni pubbliche e private tra cui l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani. Questo documento aggiorna un precedente documento del 2016, aggiornamento reso necessario dalla esperienza della pandemia. Diciamo subito che Ancona, e questo è un merito della attuale Amministrazione, fa già parte della Rete Italiana Città Sane - OMS e anzi ha organizzato lo scorso 9 e 10 giugno 2022 il XIX Meeting nazionale di questa rete dal titolo “La salute tra esperienza e innovazione: dalle buone pratiche alle nuove sfide”. Del resto Emma Capogrossi, attuale assessore alle Politiche sociali e Sanità, è il presidente della Rete italiana Città Sane.

Vediamo di capire che cosa si intende per città sana, healthy city, secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della sanità). Una città sana è conscia dell’importanza della salute come bene collettivo e di conseguenza mette in atto delle politiche chiare per tutelarla e migliorarla. La salute da bene individuale diventa bene comune che come tale diventa un obiettivo dei cittadini, dei sindaci e degli amministratori locali, che devono proporsi come garanti di una sanità equa, in cui la salute della collettività è considerata più come investimento e come risorsa che come un costo.

Il Manifesto di recentissima approvazione citato prima delinea dieci punti chiave che possono guidare le città a studiare ed approfondire i determinanti della salute nei propri contesti e a fare leva su di essi per escogitare strategie per migliorare gli stili di vita e lo stato di salute dei cittadini, ovvero:

1) ogni cittadino ha diritto a una vita sana ed integrata nel proprio contesto urbano. Bisogna rendere la salute il fulcro di tutte le politiche urbane;
2) assicurare un alto livello di alfabetizzazione e di accessibilità all’informazione sanitaria per tutti i cittadini e inserire l’educazione sanitaria in tutti i programmi scolastici con particolare riferimento ai rischi per la salute nel contesto urbano;
3) incoraggiare stili di vita sani nei luoghi di lavoro, nelle comunità e nei contesti familiari;
4) promuovere una cultura alimentare e la lotta alla povertà alimentare;
5) ampliare e migliorare l’accesso alle pratiche sportive e motorie per tutti i cittadini, favorendo lo sviluppo psicofisico dei giovani e l’invecchiamento attivo;
6) sviluppare politiche locali di trasporto urbano orientate alla sostenibilità ambientale e alla creazione di una vita salutare;
7) creare iniziative locali per promuovere l’adesione dei cittadini ai programmi di prevenzione primaria, con particolare riferimento alle malattie croniche, trasmissibili e non trasmissibili;
8) intervenire per prevenire e contenere l’impatto delle malattie trasmissibili infettive e diffusive, promuovendo e incentivando i piani di vaccinazione, le profilassi e la capacità di reazione delle istituzioni coinvolte con la collaborazione dei cittadini;
9) considerare la salute delle fasce più deboli e a rischio quale priorità per l’inclusione sociale nel contesto urbano;
10) studiare e monitorare a livello urbano i determinanti della salute dei cittadini attraverso una forte alleanza tra Comuni, Università, Aziende Sanitarie, centri di ricerca, industria e professionisti.

Ancona, come già detto, è impegnata attivamente in una politica cittadina in questa direzione. Nelle pagine del sito del Comune dedicate alla Rete Città Sane si trovano tutte le iniziative promosse in tale ambito a testimonianza della vitalità di questa attenzione. C’è però ovviamente ancora molto da fare. Faccio qualche esempio (tre) che potrebbero aiutare questo percorso di ulteriore miglioramento. Il primo esempio riguarda il tema della comunicazione, mentre gli altri due riguardano specifici temi di salute.

Il primo punto sulla comunicazione parte dal tema dell’inquinamento dell’aria. Questo è diventato centrale nel dibattito anche politico nella città. I livelli di alcuni inquinanti è più alto in Ancona non di quelli previsti dalla norma, ma di quelli previsti come “sicuri” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, con un conseguente importante impatto in termini di “decessi anticipati” in persone con malattia cronica. Di fronte a questa problematica il Comune si è posto in maniera difensiva senza, per quello che mi consta, fare due iniziative di tipo comunicativo che potevano farlo uscire dall’angolo in cui lo hanno messo i dati e le “accuse” motivate che vengono da gruppi attenti alle problematiche ambientali e da singoli cittadini esperti. La prima è comunicare con i cittadini in modo da far emergere che gli studi alla base della stima di questi rischi il Comune li ha economicamente sostenuti, li ha resi disponibili nel sito “Ancona respira” dedicato al Progetto Inquinamento Ambientale e intende utilizzarli nelle proprie scelte di governo. La seconda riguarda la comunicazione istituzionale. Sembra che la vicenda dell’inquinamento atmosferico di Ancona sia una questione del tipo “il Sindaco e la sua amministrazione contro tutti”, quando è evidente che la complessità del tema richiede il coinvolgimento degli altri Enti istituzionalmente competenti e soprattutto dotati di quelle risorse professionali necessarie ad analizzare una criticità di tipo ambientale nei suoi riflessi sulla salute dei cittadini. Si tratta allora di mettere il Sindaco e l’Amministrazione in condizione di prendere i provvedimenti necessari o comunque opportuni con il supporto di quanti sono capaci di valutare e monitorare i dati ambientali, e cioè l’ARPAM (Agenzia Regionale per l’Ambiente delle Marche), e di incrociarli con l’analisi dei dati sanitari, e cioè sia l’Azienda Sanitaria Territoriale (AST) prima Azienda Sanitaria Unica Regionale che l’ARPAM che la Agenzia Sanitaria Regionale (ARS). Per cui andava (e va) subito stabilita una relazione istituzionale coi tre enti (Regione con l’ARS , AST e ARPAM) per procedere a questa valutazione integrata e alla messa a regime di un sistema di monitoraggio e di gestione continuo del problema perché uno studio una tantum non ha senso.

Quanto ai due nuovi temi di salute da affrontare in una logica da città sana, il primo è quello di rendere Ancona una comunità amica delle persone con demenza. La demenza è un enorme problema sia per le persone che ne sono affette che per le persone che le supportano. Ancona ha anche come risorsa l’INRCA che sui temi dell’invecchiamento fa ricerca e non solo assistenza. Perché non promuovere allora un progetto che la adatti ad essere una città dementia friendly, per dirla ancora una volta in inglese? Per capire cosa voglia dire questa espressione basta fare riferimento alla figura (vedi) presa dal sito Dementia Friendly Italia, una iniziativa della Federazione Alzheimer Italia. Di recente è stata fatta una mozione per impegnare in questo senso la Amministrazione Comunale e quindi ci sono tutte le premesse per partire.

Figura Cosa vuol dire far diventare una città una comunità amica delle persone con demenza (fonte: Federazione Alzheimer Italia)

Il secondo tema di salute parte da una annotazione su cosa non è una città sana: non è una città che in occasioni straordinarie offre esami e visite gratuite ai cittadini. Questa è al massimo beneficienza istituzionale e le istituzioni non fanno beneficienza una tantum, ma danno una risposta tutti i giorni. E in questo senso sarebbe straordinario se il Comune coordinasse una iniziativa per mettere in rete e potenziare gli ambulatori solidali, quelli che assistono gratuitamente i cittadini in difficoltà.

Insomma, per rendere Ancona una città sana c’è ancora tanto da fare.

 

 

 

 


Ancona Città della Salute/4: Nuovo INRCA, cantiere aperto non solo in senso edilizio

Il reportage di Claudio Maffei sul mondo della sanità anconetana giunge alla quarta e ultima puntata. Nelle tre precedenti, abbiamo parlato nell’ordine di Ancona che “perde” i suoi ospedali che vengono portati fuori della città, della Casa della Comunità che nascerà al vecchio Umberto I e della evoluzione dell’Azienda Ospedaliero-Unversitaria “di Ancona” diventata “delle Marche”. Questa volta tocca all’INRCA, una “istituzione ” dalle molte particolarità che probabilmente sono note solo a una piccola parte dei cittadini e a una parte appena più consistente degli amministratori. Ricostruiamole.

L’INRCA è innanzitutto un Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS, qua gli acronimi abbondano) il che vuol dire che svolge per compito istituzionale una attività di ricerca oltre che assistenziale e che ha, oltre agli altri Direttori soliti (Generale, Sanitario e Amministrativo) anche un Direttore Scientifico e un Consiglio di Indirizzo e Verifica. In quanto IRCCS, l’INRCA risponde sia alla Regione Marche (di gran lunga il suo principale finanziatore) che al Ministero della Salute ed è anche l’unico IRCCS in Italia ad occuparsi di anziani.

L’INRCA si caratterizza poi per altri aspetti. Ha una dimensione multiregionale, avendo sedi ospedaliere (piccole) con attività di area geriatrico-riabilitativa a Casatenovo in Lombardia (provincia di Lecco) e in Calabria a Cosenza. Ha inoltre più sedi di attività nelle Marche perché, oltre ad Ancona di cui parleremo dopo, ha un presidio ospedaliero di piccole dimensioni per acuti e dotato di Pronto Soccorso a Osimo, confluito dall’ASUR all’INRCA il primo gennaio 2018, uno a Fermo di area geriatrico-riabilitativa, mentre a Treia in Provincia di Macerata ha una piccola attività residenziale dentro l’Ospedale di Comunità dell’Azienda Sanitaria Territoriale di Macerata. Quest’ultima attività è stata collocata a Treia in attesa, ormai da molti anni, della ricostruzione della vecchia struttura residenziale INRCA di Appignano (sempre in provincia di Macerata). A un certo punto alla fine degli anni ’70 della rete degli Ospedali INRCA, nata come vedremo ad Ancona, facevano parte, oltre a quelli già nominati, anche gli Ospedali Geriatrici poi chiusi o trasferiti alle Regioni di competenza di Firenze (dove ce n’erano due), Cagliari e Roma mentre se ne dovevano costruire altri, cosa però mai avvenuta, anche a Torino e Genova.

Ma adesso parliamo dell’INRCA di Ancona, la cui appassionante storia viene ricostruita in un bellissimo libro del Professor Enrico Paciaroni pubblicato nel 2005 da “il lavoro editoriale” (L’INRCA: dall’Ospizio dei poveri e di mendicità alla ricerca geriatrica d’eccellenza). Qui la storia dell’INRCA viene fatta partire dalla costituzione nel 1844 ad Ancona dell’Ospizio dei Poveri e di mendicità, collocato presso alcuni locali nel complesso di San Francesco alle Scale. Da qui nel 1927 l’Ospizio venne trasferito alle Grazie dove oggi c’è l’Ospedale INRCA della Montagnola. All’inizio degli anni ’60 la storia dell’INRCA prende velocità grazie all’intraprendenza di un anconetano, Aurelio Paolinelli, Segretario dell’Ente, che avviò e guidò un percorso che portò l’INRCA nel giro di qualche anno ad aprire tutte le sedi ricordate in precedenza. Ad Ancona, oltre all’Ospedale della Montagnola intitolato al benefattore Cav. Ulderico Sestilli, l’INRCA ha la sede degli uffici amministrativi e dell’attività di ricerca economico-sociale nella splendida Villa Gusso al Passetto, dove opera anche un Centro Diurno Alzheimer (Centro Disturbi Cognitivi e Demenze, per la precisione), mentre alcuni Laboratori di Ricerca si trovano in un edificio in via Birarelli nel quartiere San Pietro pieno Centro Storico. Quest’ultimo edificio si trova dove una volta c’era l’Ospedale per i poveri indigenti annesso alla Chiesa di Sant’Anna dei Greci. Nel 1944 parte dell’edificio che ospitava questo Ospedale (già al tempo chiuso da oltre un secolo e mezzo) e la Chiesa furono distrutti da un bombardamento.

Murale sulla solidarietà intergenerazionale all’ingresso dell’Ospedale Geriatrico U. Sestilli
di Ancona

L’attuale Ospedale della Montagnola nacque a seguito dell’abbandono dell’Ospedale INRCA di Posatora danneggiato dalla frana del 1982, frana che causò a Posatora anche l’abbandono del vicino Ospedale Oncologico e di una struttura residenziale per anziani dell’INRCA , il Tambroni, poi ricostruito nell’area retrostante il vecchio Manicomio, area oggi sede degli uffici e degli ambulatori dell’Azienda Sanitaria. Purtroppo questa struttura subito dopo essere stata inaugurata nel 2005 non ha mai iniziato la sua attività per delle gravi carenze strutturali. Ad Ancona l’INRCA svolge anche una attività di “cure intermedie” (e cioè anch’essa di tipo residenziale) presso la struttura Residenza Dorica del gruppo privato Santo Stefano verso Ancona sud oltre al Centro Diurno Alzheimer presso Villa Gusso.

Ma quali sono le opportunità e le problematiche che la presenza dell’INRCA offre ad Ancona?
Partiamo dalla ricerca e dalla progettualità di tipo economico-sociale in cui l’INRCA ha grande esperienza e competenza. Ancora l'integrazione tra Comune di Ancona e INRCA non riesce ad essere sistematica su questi temi. È stato attivo fino all’esplosione della pandemia un Tavolo di lavoro del Comune di Ancona sugli Anziani, Tavolo che aveva prodotto già alcune proposte e di cui l’INRCA era stato protagonista attivo. Se si va però nel sito del Comune nella pagina dedicata agli Anziani nell’ambito delle attività del Servizio Politiche Sociali non compaiono progettualità che coinvolgono esplicitamente l’INRCA e anche nella presentazione dei progetti finanziati dal PNRR l’INRCA non viene citato. Va inoltre citata un'esperienza positiva che dura da alcuni anni di percorso integrato con il Comune per la dimissione protetta dei pazienti dall’Ospedale della Montagnola.

Sul versante sanitario abbiamo nell’INRCA di Ancona una grande opportunità (e relativi rischi) e un grande assente. La grande opportunità sono nel nuovo ospedale sotto Camerano ad Ancona sud, che integrerà le attività della Montagnola più quelle dell’attuale Ospedale di Osimo. Il grande assente è il territorio, dove si gioca la tutela della salute degli anziani e dove l’INRCA fa poca assistenza e di conseguenza fa poca ricerca.

Non si può in questa sede approfondire storia passata e realtà attuale dell’Ospedale INRCA di Ancona in termini di qualità dell’assistenza e della ricerca. Voglio solo ricordare che si tratta di una storia piena di figure di prestigio e di un presente con grandi professionalità. Non faccio elenchi per non correre il rischio di dimenticare qualcuno. Da ricordare invece che all’interno della Montagnola opera la Clinica di Medicina Interna e Geriatria dell’Università Politecnica delle Marche cui afferisce la Scuola di Specializzazione in Geriatria.

Il nuovo Ospedale è previsto con una dotazione di 296 posti letto (dato ufficiale della Regione) e cioè circa 30 in più di quelli di cui dispongono i due attuali ospedali che vi confluiranno che diventano circa 50 , e cioè una ulteriore ventina di più, se si tiene conto di quelli oggi effettivamente operativi (dati ricavabili dai Bilanci dell’INRCA). Tra questi 30-50 posti letto in più ce ne sono molti ad alto assorbimento di risorse umane, quali un nuovo reparto di terapia intensiva e un’area di terapia semintensiva che oggi mancano e due posti letto in più sia per l’unità coronarica che per la stroke-unit. Di questo potenziamento dell’INRCA io, che ho 70 anni (uno per ogni posto letto in più) e che dell’INRCA sono stato mediocre Direttore Sanitario, sono felice. Lo sarei anche di più se la Regione fosse in grado di dimostrare che oltre a rendere operativi tutti questi posti letto riuscirà anche a mantenere le promesse che sta facendo in giro sul potenziamento di tutti gli altri ospedali a Macerata, Senigallia, San Benedetto del Tronto, Pergola, insomma ovunque.

Murale a Capodimonte

Anche gli anconetani dovrebbero avere qualche domanda al riguardo perché con Torrette, il nuovo Salesi e il nuovo INRCA ci sarà il rischio per Ancona di non riuscire ad avere servizi territoriali adeguati. Il personale è limitato e di conseguenza o gli ospedali non lavoreranno a pieno regime o avranno attorno un territorio povero di servizi sociosanitari che farà pressione sui Pronto Soccorso e non riusciranno ad accogliere i pazienti in dimissione. Il rischio per gli ospedali di Ancona di diventare “cattedrali nel deserto” è molto alto. Quindi i nuovi Direttori di Torrette ed INRCA comincino a ragionarci. Con l’INRCA attuale di Ancona che chiude dove andranno i pazienti geriatrici acuti che non troveranno più l’Accettazione Geriatrica d’urgenza della Montagnola? Come si distribuiranno i due ospedali di Ancona le fratture di femore e la patologia chirurgica dell’anziano? Che accordi si prenderanno per garantire che Torrette faccia l’alta complessità e divida con l’INRCA di Ancona-sud la copertura della attività ospedaliera di base per i cittadini di Ancona (e delle altre città e cittadine della stessa area)? I due ospedali si faranno concorrenza o si integreranno? E se si integreranno, come avverrà questa integrazione? E soprattutto: dove si troverà il personale e come si spiegherà al resto della Regione tanta abbondanza ospedaliera (non solo di posti letto, ma anche di tecnologie?

Sempre sul versante sanitario c’è da decidere il destino del Tambroni e dei suoi posti letto residenziali. Si tratta di una partita sospesa da riprendere e chiudere perché comunque comporta costi e perché Ancona ha bisogno di quei posti letto. Il progetto del Tambroni potrebbe comportarere anche il “rientro” dei posti letto di cure intermedie che l’INRCA gestisce in spazi affittati dal Santo Stefano. Anche il Centro Diurno di Villa Gusso merita un’altra più idonea collocazione.

E infine c’è la questione degli immobili. Che fare della struttura in via Birarelli? Certamente le attività di ricerca di laboratorio che vi vengono svolte dovrebbero trovare spazio nel nuovo Ospedale, dove però non ci sono spazi per la Direzione e per gli uffici amministrativi attualmente in via Gusso. Sembra ragionevole un recupero nel tempo alla città anche di questo edificio di grande prestigio e storia.

Insomma, l’INRCA è un grande cantiere aperto e non solo in senso edilizio. C’è bisogno di un progetto INRCA di città (e di Regione, ovviamente) che dia una risposta alle questioni aperte e uno sviluppo alle potenzialità che l’Istituto può offrire alla città che l’ha fatto nascere. Un aiuto lo può, anzi lo deve, dare anche il Comitato di Partecipazione dell’INRCA, che comprende rappresentanti delle Associazioni dei cittadini ed è molto attivo e propositivo. Per concludere: buon lavoro al nuovo Direttore Generale, dottoressa Maria Capalbo, collega che conosco e apprezzo.

 

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Nella foto di copertina: Persone “di una certa età” in Piazza Roma (Foto di Enzo Gerini)


Ancona Città della Salute/3: L'ospedale di Ancona diventa l'Ospedale delle Marche

Il terzo capitolo parte del viaggio nel mondo della sanità anconetana ci porta a Torrette, dove gli Ospedali Riuniti si sono trasformati in "Azienda Ospedaliero-Universitaria delle Marche" diventando il primo e più importante ospedale della Regione. Da questa scelta scaturiscono innegabili vantaggi, ma anche alcuni rischi che Claudio Maffei, medico a riposo, ex docente universitario e dirigente della sanità pubblica, analizza per i lettori di A.

Il tema del “grande” ospedale di Ancona (quello che prima era l’Umberto I e oggi è “Torrette” presso il quale speriamo tra poco troverà spazio anche il nuovo Salesi) è essenziale per la nostra città. Da sempre Ancona ha avuto una vocazione ospedaliera, di cui abbiamo già avuto modo di parlare nel primo degli articoli di questa serie. Una vocazione che l’ha portata ad avere nelle Marche, prima l’unico Ospedale Regionale (quando ancora esisteva questa dizione), e poi ad essere sede della prima e unica Facoltà di Medicina.

Si può tranquillamente - credo - affermare che uno dei “primati” che tutta la Regione “civile” riconosce alla nostra città è proprio a livello di assistenza ospedaliera. Ma anche la Regione “politica” lo riconosce visto che, pur non avendo mai espresso negli ultimi trent’anni un Assessore alla Sanità, Ancona continua ad avere l’unico ospedale di II livello della Regione e quindi l’unico dotato di alte specialità, come ad esempio la cardiochirurgia, la chirurgia toracica, la chirurgia dei trapianti e il Centro Trauma Gravi. Caratteristiche che fanno essere il “nostro” ospedale anche l’unico della Regione con un Dipartimento di Emergenza e Accettazione di II livello con un servizio di elisoccorso e centro di riferimento di reti cliniche importantissime come quella neonatologica.

Per parlare del “nostro” ospedale vorrei usare come spunto di partenza la scelta di trasformare questa estate il nome della Azienda Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti di Ancona Umberto I - G.M. Lancisi - G. Salesi” in “Azienda Ospedaliero-Universitaria delle Marche”.
Il cambio di denominazione è stato deciso dalla Direzione dell’Azienda d’intesa con l’Università Politecnica (a sua volta e non a caso “delle Marche”) all’indomani dell'approvazione da parte della Regione della (a mio parere sciagurata, ma questo è un altro discorso) Legge di Riforma della Sanità delle Marche che ha previsto la soppressione dell’altra Azienda Ospedaliera, quella di Marche Nord, che comprendeva i due ospedali di Pesaro e Fano. Essendo quella di Ancona rimasta la sola Azienda Ospedaliera della Regione, si è ritenuto opportuno rendere evidente anche nella sua denominazione questa unicità facendo così perdere il riferimento nel nome sia alla città che ai suoi tre ospedali storici (il Regionale Umberto I, il Cardiologico Lancisi e l’Ospedaletto Salesi). Si tratta di un caso quasi unico in Italia di Ospedale senza la città nel nome. Le intenzioni alla base del cambio di denominazione sono di per sé buone: rilanciare il ruolo unico e centrale dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria nella Regione.

Secondo me, taglio delle radici a parte (che pure conta), ci sono però alcuni possibili equivoci e altrettanti rischi in questa scelta di cambiare nome. Una scelta importante, come sapevano i Romani secondo cui “nomen omen”: il destino nel nome. Il primo equivoco riguarda il fatto che con il Salesi che va a Torrette (nome troppo locale per chiamare l’Ospedale delle Marche, ma noi continueremo a usarlo) e con l’INRCA che andrà sotto Camerano per gli anconetani quella di Torrette rimarrà l’unica struttura ospedaliera in città. Quella, ad esempio, con il Pronto Soccorso più vicino e più “robusto”, quella con l’offerta ambulatoriale più significativa e quella cui la maggioranza degli anconetani si rivolge per i problemi chirurgici più comuni oltre che per quelli più complessi. L’enfasi sulle sole attività di secondo e terzo livello che caratterizzano il ruolo “marchigiano” (e nazionale) dell’ospedale rischia di far perdere di vista l’importanza delle prestazioni di primo livello della parte dell’ospedale che dovrebbe servire gli anconetani, che infatti a Torrette trovano difficoltà di risposta ad esempio per la patologia chirurgica “minore” che minore non è per chi ne soffre (varici, cataratta ed ernie sono le prime che mi vengono in mente). Il primo rischio della nuova denominazione e della filosofia che la sostiene è dunque che per essere abbastanza “marchigiano” Torrette non ce la faccia più a essere abbastanza anconetano, quando gli anconetani continuano invece ad averne un gran bisogno.

Un secondo rischio è che la nuova denominazione enfatizzi il già pesante ruolo del governo regionale sulle scelte che riguardano il “nostro” ospedale e renda sempre più lontana e passiva la politica locale rispetto a queste scelte. Se l’Ospedale è delle Marche sarà naturale che sia la sola Regione Marche a deciderne i destini. Questa delega non la lascerei tutta in bianco. Il balletto di questi giorni sulla nomina del nuovo Direttore Generale del “nostro” Ospedale costituisce un esempio efficace (mentre scrivo il balletto non è ancora finito).

Terzo rischio: l'esibizione dell'unicità dell’Ospedale di Ancona come sede dell’unica Azienda Ospedaliera delle Marche può ostacolare la sua integrazione con il resto dei servizi. Per svolgere bene il suo ruolo regionale (e nazionale) l’Ospedale di Ancona ha bisogno di fare rete sia con i servizi territoriali locali che con tutta la rete ospedaliera della Regione, a partire dagli ospedali più vicini. Fare rete vuol dire avere obiettivi comuni e una operatività integrata senza competizione. Quindi più il profilo comunicativo dell’Ospedale sarà sobrio e la sua operatività sarà al servizio del sistema sanitario regionale e più la sua centralità verrà riconosciuta. Ricordiamoci che ancora Ancona e il resto della Regione non si amano molto.

Con lo stesso atteggiamento di sobrietà va vissuto il riconoscimento dato di recente all’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ancona, cioè delle Marche, come miglior ospedale pubblico d’Italia. Questo riconoscimento è frutto di una elaborazione dei dati di attività 2021 fatta da una Agenzia del Ministero della Salute. Questa elaborazione notoriamente non è in grado di fare “vere” classifiche perchè utilizza un sistema di indicatori che non copre molti aspetti della qualità dell’assistenza. Si tratta comunque di un ottimo segnale da vivere con la consapevolezza che i miglioramenti da apportare sono tanti e che chi lavora a Torrette o ci va per ricevere assistenza lo sa. Meglio evitare commenti trionfalistici che rischiano di farsi dire “cala giù da qul pajaro!”. Che è la versione anconetana di un invito all’understatement, insomma alla modestia.

Per concludere il ruolo dell’Ospedale di Ancona nella Regione dovrà essere sempre più (facciamo i moderni) “glocal” e quindi capace di concentrarsi contemporaneamente sulla dimensione locale e su quella globale regionale e nazionale. Colgo l’occasione per buttare lì un'idea: perché non trasformare Villa Maria in una sorta di Museo/Centro Studi sugli Ospedali di Ancona? Una storia che merita di essere studiata, conosciuta e meditata.

PS L’occasione è buona anche per fare gli auguri al Prof. Luigi Miti, storico primario della Medicina Generale dell’Umberto I, che il 30 dicembre ha compiuto 108 anni. Un monumento vivente, ancora lucido come sempre nella sua vita.

 

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Nella foto di copertina: L'Ospedale di Torrette


Città che respira? Serve il coraggio della politica

La nostra intervista a Mirko Laurenti, curatore per Legambiente del rapporto Ecosistema Urbano che misura le performance ambientali dei capoluoghi di provincia italiani. Nel 2021 la fotografia di un Paese che fatica a stare al passo, non solo a causa della pandemia. E Ancona sprofonda in classifica…

Mirko Laurenti è il curatore, con Marina Trentin, dell’indagine di Legambiente Ecosistema Urbano, che ogni anno misura e racconta le performance ambientali dei capoluoghi di provincia italiani. L’ultimo rapporto, pubblicato nel novembre scorso, raccoglie i dati del 2020, un anno contrassegnato dall’emergenza Covid. Fotografa un Paese fermo dal punto di vista della vivibilità ambientale in ambito urbano, che addirittura regredisce sotto molti aspetti. Ma, come vedremo, non è solo colpa del Covid, non è tutta colpa del Covid.
Da 29 anni Ecosistema Urbano realizza una classifica basata su 18 parametri che valutano le performance delle varie città capoluogo del Paese in fatto di qualità dell’aria, delle acque, raccolta dei rifiuti, trasporti e mobilità, spazio verde urbano, efficientamento energetico, politiche ambientali in genere.
L’enorme lavoro portato avanti da Legambiente ha innescato negli anni un cambiamento profondo nel modo di misurare gli indicatori ambientali nelle città, è stato in grado di far leva sull’opinione pubblica e in molti casi di orientare le scelte della politica.
In un quadro generale assai critico, ha fatto rumore dalle nostre parti il crollo in classifica di Ancona, capace di perdere ben 29 posizioni rispetto all’anno precedente, passando dal 44esimo posto al 73esimo. Troppe auto in circolazione, troppe poche le piste ciclabili e le zone pedonali, troppi i morti lungo le nostre strade: queste le principali criticità rilevate, che purtroppo sono croniche. Pesano anche alcuni errori fatti nella comunicazioni dei dati, qualche mancanza nelle misurazioni, ma insomma è evidente che la nostra città avrebbe assoluto bisogno di rinverdire (è proprio il caso di dirlo) le politiche in tema di ambiente. E tanto avrebbe da fare anche in quanto alla capacità di comunicare con i cittadini. Saper trasmettere l’importanza di politiche virtuose e scelte di ampia prospettiva, incoraggiare comportamenti responsabili da parte dei cittadini, intercettare e sensibilizzare anche le fasce di popolazione più difficili da raggiungere, che poi quasi sempre sono quelle che hanno i maggiori problemi.
Delle azioni da mettere in campo, delle modalità e del coraggio necessario, abbiamo parlato con Mirko Laurenti.

Mirko Laurenti, fa parte dell'Ufficio Scientifico di Legambiente ed è responsabile del rapporto Ecosistema Urbano dell'associazione ambientalista sin dal 2002.

Ciao Mirko, che quadro generale emerge dall’ultimo rapporto Ecosistema Urbano? Come sta l’Italia?

«Il report pubblicato a fine 2021 si basa su dati rilevati nel 2020, un anno particolare a causa della pandemia. Ne consegue che la foto scattata è abbastanza impietosa, ritrae ad esempio un Paese che ha abbandonato il trasporto pubblico. Attenzione però a dare la colpa solo alla pandemia, perchè se si leggono bene i numeri ci si accorge che non dappertutto la situazione è la medesima. Cito due casi, quelli di Milano e di Palermo, in cui pur nel disastro causato dal Covid, il settore dei trasporti pubblici ha tenuto botta e non è crollato come in quasi tutte le altre città d’Italia. Milano, lo sappiamo, è un caso a parte nella geografia del nostro Paese, è la città più europea anche dal punto di vista della mobilità. Già da diversi anni ha intrapreso un percorso che l’ha portata ad aumentare lo spazio destinato a pedoni e ciclisti, e contestualmente a limitare la circolazione di mezzi privati nelle aree del centro. Azioni che rispondono ad un preciso indirizzo politico. E queste azioni hanno fatto sì che anche nel momento in cui la circolazione dei mezzi pubblici era vietata a causa della pandemia, i cittadini abbiano reagito non riprendendo l’auto, ma optando ad esempio per le bici e i monopattini, visto che già era disponibile un efficiente servizio di sharing e le persone erano abituate ad utilizzarlo».

L’uso del monopattino e delle piattaforme di sharing è aumentato proprio durante la pandemia.

«Ecco, se possiamo trovare un lato positivo sulla mobilità di questo periodo è proprio questo. Certo solo per alcune città. Per il resto vediamo purtroppo un Paese statico, un Paese in cui l’inquinamento atmosferico fa rilevare ancora indici troppo alti».

Citavi anche il caso di Palermo.

«Sì, ovviamente una città che non ha nulla a che vedere con Milano, e che pure negli ultimi tempi ha investito sulla mobilità alternativa. E questi investimenti hanno fatto sì che durante la pandemia gli indici relativi al trasporto pubblico, certo ancora non esaltanti, non sono sprofondati, come invece purtroppo successo da altre parti».

Possiamo dire in generale che il Covid ha aggravato ancora di più una situazione già critica di suo.

«Sì, diciamo che il Covid ha accelerato le criticità già esistenti. Poi ci sono state città che hanno risposto meglio, come appunto Milano, oppure Trento, Reggio Emilia e Mantova, che infatti sono sul “podio” della classifica di Ecosistema Urbano. Altre città purtroppo sono state totalmente affossate dalla situazione d’emergenza. Palermo, nonostante quanto detto sopra, ha per altri versi numeri poco edificanti. O la stessa Torino, in cui gli indici di inquinamento sono allarmanti».

Eppure siamo stati a lungo in casa, in smart working, con le auto ferme in garage.

«Già, peccato che appena siamo usciti di casa abbiamo recuperato in fretta le cattive abitudini di prima, annullando in poco tempo gli effetti benefici del lockdown».

Le grandi città in Italia sono poche e rappresentano un’eccezione. Tra queste Roma è un caso ancor più particolare per tanti motivi. La maggior parte dei capoluoghi di provincia italiani fanno invece i conti con dimensioni più contenute, e tra queste vi è Ancona.

«Vero, la spina dorsale del nostro Paese è rappresentata da città medio piccole, favorite ad esempio da un carico di abitanti modesto, da un traffico ridotto, da minore inquinamento. Questo però dovrebbe spingerle a fare di più e meglio in tema di cura dell’ambiente, ad agire in modo più deciso approfittando delle situazioni favorevoli. Invece, a parte rare eccezioni, regna ancora un certo immobilismo».

Ecco, veniamo ad Ancona. Abbiamo visto che le nostre performance sono peggiorate rispetto al passato. Ciò si deve in parte ad una mancata (o errata) comunicazione dei dati che ci fa sembrare più “pecore nere” di quanto in realtà siamo, e in parte però a criticità effettive, in particolare sul tema della mobilità.

«Ancona paga un carico non secondario derivante dall’attività di un grande porto inglobato nel centro urbano, ma non c’è dubbio che potrebbe e dovrebbe fare di più. E già da parecchio tempo».

Se si guarda agli altri capoluoghi marchigiani, pesa il confronto con Pesaro, che invece viene citata come città virtuosa anche dalla stessa Legambiente. Però ad Ancona si usa spesso dire “qui non siamo a Pesaro” proprio per indicare alcune differenze sostanziali, specie nella conformazione del territorio e dell’urbanizzazione.

«Potrei citarvi però il caso di Macerata, cittadina non certo pianeggiante, in cui si nota negli ultimi tempi un’inversione di tendenza su aspetti importanti, come nuove zone ciclopedonali, maggiori limitazioni al traffico, investimenti in piantumazione e aree verdi. Per quanto invece riguarda Pesaro, certo è favorita da una posizione felice, ma non c’è dubbio che negli ultimi 12 anni le scelte strategiche di amministratori capaci e avveduti l’hanno portata ad essere presa d’esempio non solo nelle Marche, ma in Italia e all’estero. Pensiamo alla Bicipolitana, o alla vasta pedonalizzazione del centro storico, o al premio ricevuto da Legambiente per l’efficientamento energetico di una scuola».

Anche ad Ancona c’è una scuola totalmente autosufficiente dal punto di vista energetico. Ecco, non è che poi a volte pesa soprattutto la capacità e la bravura di sapersi raccontare?

«Può darsi. Pesaro ha certamente saputo comunicare molto bene le sue scelte anche se resta il fatto che le cose non le ha solo raccontate, le ha fatte per davvero e bene. Altri invece, proprio per paura di pagare pegno elettorale, rinunciano alle scelte più coraggiose e di prospettiva».

Il tema del coraggio della politica si lega necessariamente a quello del coinvolgimento dei cittadini. Tra i fattori evidenziati da Legambiente in tema di miglioramento energetico c’è la necessità di coinvolgere gli stakeholder e incentivare il dibattito pubblico. Vedi progressi da questo punto di vista negli ultimi anni?

«L’aspetto che è migliorato di più negli anni è proprio quello dell’attenzione che chi amministra rivolge alle istanze dei cittadini. Certo, in molti casi, è la legge a rendere obbligatorio tale ascolto, pensiamo ad esempio ai PUMS. Ciò significa che anche il legislatore centrale ormai è sempre più orientato verso modelli di partecipazione diffusa e di qualità».

Alcuni esempi?

«Penso al Grab di Roma, il Grande raccordo anulare delle biciclette. Un progetto lanciato a suo tempo da cittadini e associazioni, tra cui Legambiente, poi finanziato dal Ministero, e che ora sta per diventare realtà. E sarà un grande esempio di partecipazione, perché i cittadini sono stati coinvolti nella fase di progettazione e hanno apportato modifiche che hanno reso il tracciato senz’altro più fruibile e utile. Questo secondo me è un esempio di come si dovrebbero fare le cose. Un altro è la Tramvia di Firenze. Poi è evidente che non sempre la partecipazione viene incoraggiata, perchè potrebbe non giovare alla politica. Noto però che un po’ ovunque le cose stanno migliorando, sulla scia di quanto chiesto in primis da Legambiente, ma non solo. Negli anni hanno preso vita comitati di cittadini ottimamente organizzati, che si avvalgono della collaborazione di professionisti, in grado di sviluppare anche ottimi progetti di Citizen Science».

Va dato atto a Legambiente di essere riuscita negli anni a incentivare i Comuni a misurarsi e a raccontarsi. Questo è, tra gli altri, un grande merito. In Ecosistema Urbano potrebbero trovare posto indicatori che misurano il coinvolgimento dei cittadini e i progressi in fatto di Citizen Science, ovvero la capacità di stimolare cittadini a effettuare ricerche scientifiche e monitoraggi sulle città che abitano?

«Per quanto riguarda il tema della partecipazione, un indice esisteva poi lo abbiamo tolto perché vedevamo che più o meno i parametri erano rispettati ovunque, ma poi era difficile stabilire oggettivamente chi lo faceva bene e chi lo sbandierava soltanto. Stessa difficoltà più o meno potrebbe derivare dalla misurazione dei progetti di Citizen Science attivati in una determinata città. Ma chiaramente il tema della partecipazione è tra quelli che ci sta più a cuore e che monitoriamo sempre con attenzione anche attraverso strumenti come Ecosistema Urbano»

Città dei 15 minuti: secondo te è un miraggio, uno slogan buono per le campagne elettorali, o un orizzonte reale?

«Certamente un obiettivo alla portata. Se ci sta provando e riuscendo Milano, con tutte le difficoltà del caso, vuol dire che per le città più piccole e meno problematiche è ancora più fattibile. Ciò che Legambiente ha sempre rimarcato è che le città italiane non sono fatte per le auto. I nostri centri storici sono stati pensati e costruiti per un traffico di pedoni e cavalli, non certo per farci entrare 4mila macchine in un’ora. Quindi se c’è la volontà, è certamente possibile tornare alle città dei nostri nonni. Un’auto la si usa in media per fare tratte da 5-7 chilometri. Una distanza esigua, che può benissimo essere coperta con mezzi più virtuosi: a piedi, in bici, in autobus. Milano ci sta provando davvero, Gualtieri, il nuovo sindaco di Roma, in campagna elettorale ha fatto dichiarazioni impegnative in tal senso».

In campagna elettorale vale tutto!

«Certo, però è evidente che il tema è entrato ormai stabilmente nelle agende politiche, sui media se ne parla, le giovani generazioni hanno la questione molto a cuore e prima o poi bisognerà farci i conti. Secondo me sono tutti segnali molto importanti».

Anche perché ora forse il PNRR porterà nelle casse dei comuni soldi che negli ultimi anni non c’erano più.

«Esatto. A condizione che sia il PNRR dei sindaci e non solo del governo centrale. Non può essere Roma a dire ad esempio “dovete comprare più autobus”, perché sono i sindaci di Ancona, Como e Lecce a sapere se c’è bisogno di autobus o di altro».

A tal proposito, anche nei Comuni ci sarebbe bisogno di competenze tecniche e amministrative che spesso mancano.

«Vero e in questo caso i Ministeri dovrebbero migliorare nella comunicazione e nell’assistenza. Mettere effettivamente i territori nelle condizioni di decidere come spendere al meglio i soldi»

Poi serve la politica e il coraggio dei sindaci.

«Servono sindaci che non cerchino alibi e un governo che non fornisca alibi».

 

 

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Foto di copertina: uno scorcio del quartiere Archi di Francesca Bianchelli


Ancona città della Salute / 2: Ospedale di Comunità all’Umberto I, costruite le mura, aspettiamo i contenuti

La seconda parte del viaggio nel mondo della sanità cittadina è incentrata sul vecchio Umberto I, inaugurato nel 1911 e chiuso nel 2003. Qui sorgerà uno dei due ospedali di comunità di Ancona. Ma che cosa prevede il progetto? E che cosa serve per far sì che tali strutture siano efficaci e virtuose? Ce ne parla Claudio Maffei, medico a riposo, ex docente universitario e dirigente della sanità pubblica

Il 20 novembre 1911 si inaugurava il vecchio Ospedale Umberto I di Ancona che nel 2003 chiuderà. Tra qualche tempo (mesi probabilmente, anni speriamo proprio di no) riaprirà con attività completamente diverse, che con l’ospedale non c’entrano e che anzi dovrebbero fortemente ridurre la necessità dei cittadini di Ancona di ricorrere ai suoi ospedali, nel frattempo trasferitisi quasi del tutto a Torrette (sia il vecchio Umberto I che il cardiologico Lancisi, mentre a breve -anche qui speriamo presto - seguirà il trasferimento dell’Ospedaletto dei Bambini Salesi). Nella prima parte del mio intervento ho descritto le motivazioni da riduzione nel numero degli Ospedali di Ancona e del loro spostamento del centro. In questo secondo articolo descriverò invece una parte importante del progetto di trasformazione del vecchio Umberto I.

La posa della prima pietra dell’Umberto I il 24 giugno 1906 alla presenza dei sovrani d’Italia (foto d’epoca)

 

Vediamo innanzitutto cosa prevede il progetto. Dai giornali locali apprendo che alla sanità saranno dedicati i due padiglioni all’ingresso dell’ex Umberto I. Uno ospiterà una Casa della Comunità, dove saranno tra l’altro trasferiti tutti i servizi presenti ora al Poliambulatorio del Viale della Vittoria, e uno ospiterà delle attività residenziali per gli anziani e un hospice. In questo articolo non entrerò nel dettaglio del progetto, che peraltro non conosco, e non farò polemiche sui ritardi vincendo la tentazione di confrontarli con quelli della realizzazione del primo vero Umberto I (credo sei anni, ma non lo voglio ricordare!). Parlerò invece della filosofia che ha ispirato la parte più interessante del progetto, quella che prevede la creazione di una Casa della Comunità, riservando a future occasioni la presentazione delle indicazioni progettuali di dettaglio, magari con il coinvolgimento delle due istituzioni interessate (Azienda Sanitaria Unica Regionale e Comune).

Partiamo da una banale premessa sotto forma di domanda: come facciamo oggi a rispondere ai problemi di salute dei cittadini con meno ospedali e meno posti letto? Nel caso di Ancona, come si fa a farsi bastare un solo ospedale, oltretutto non in centro? E’ evidente che perché la salute degli anconetani non ne risenta occorre che i servizi territoriali cambino e facciano cose che prima non facevano o non facevano abbastanza. Se impostiamo la questione così proviamo a vedere come il nuovo Umberto I, Casa della Comunità e non più ospedale, aiuterà a funzionare bene e a essere sufficiente il nuovo Ospedale Umberto I (con dentro ovviamente anche il Salesi e il Lancisi).

Vediamo da vicino cosa è una Casa della Comunità. Per dare un senso a tale struttura e alle sue funzioni ci conviene partire da un dato: il principale problema di salute che andrebbe gestito in modo diverso in Italia e nelle Marche per ridurre il carico di lavoro degli ospedali è quello delle malattie croniche. Si tratta di una serie di malattie che non possono guarire, ma possono essere prevenute e/o rallentate. Stiamo parlando delle malattie del cuore (come lo scompenso cardiaco), delle malattie croniche dell’apparato respiratorio, del diabete, dell’ictus, della ipertensione arteriosa, ecc. Sono malattie e condizioni che spesso sono presenti nella stessa persona contemporaneamente e che sono la principale causa di invalidità e di morte. Per queste malattie e condizioni si dovrebbe passare da un modello di risposta tradizionale in cui la persona se si aggrava si rivolge al suo medico di medicina generale e questo si rivolge nei casi più rilevanti allo specialista, ad un modello proattivo di solito identificato con il termine di sanità di iniziativa. In questo modello le persone con una condizione cronica vengono educate a gestire al meglio la propria condizione con l’aiuto dei familiari e quando la loro condizione si aggrava hanno a disposizione una equipe che se ne fa carico senza che lui o lei se ne debba più preoccupare. Si usa in questi casi il termine di “presa in carico” da parte dei servizi. Perché questa avvenga occorre superare la organizzazione tradizionale della medicina generale e della pediatria del territorio (la cosiddetta pediatria di libera scelta) in cui i medici tendono a lavorare ciascuno nel proprio ambulatorio di solito con poco personale di supporto amministrativo, per lo più amministrativo, e arrivare ad una organizzazione in cui i medici e i pediatri “di famiglia” lavorano in equipe assieme a infermieri (tra cui quelli corrispondenti alla figura nuova dell’infermiere di famiglia e di comunità), medici specialisti, psicologi, ostetrici, assistenti sociali e altri professionisti delle aree della prevenzione, della riabilitazione e tecnica. La struttura che ospita questa organizzazione deve offrire i suoi servizi nelle 12 ore diurne e con la Guardia Medica coprire le 24 ore. Ecco, abbiamo appena descritto la Casa della Comunità.

Questa delle Case della Comunità è una quasi novità del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che ne ha finanziate dal punto di vista edilizio 29 nelle Marche, di cui due ad Ancona, uno all’ex Umberto I e una all’ex CRASS. Le caratteristiche organizzative e funzionali di queste strutture sono state definite da un Decreto Ministeriale di recente approvazione. Il Decreto prevede in aggiunta a quanto già detto che le Case della Comunità siano sede di una forte integrazione tra i servizi sanitari e sociali, offrano assistenza domiciliare, ospitino le attività consultoriali, si rapportino con i servizi del Dipartimento di Salute Mentale, svolgano attività di prevenzione delle malattie (come gli screening dei tumori) e di promozione della salute e infine siano aperte ai cittadini e quindi anche al volontariato, alle associazioni dei cittadini e dei pazienti e ai cosiddetti caregiver, e cioè i familiari che partecipano attivamente al processo di assistenza ai loro cari.

Il pensiero di chi ha vissuto almeno da bambino la sanità di 50 anni fa, quella di prima della riforma del 1978 che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale (la Legge 833), corre a questo ai vecchi Poliambulatori dell’INAM, quello ad esempio in via Maratta vicino alla Chiesa del Sacro Cuore dove accompagnavo mia madre. No, la Casa della Comunità è un’altra cosa. E soprattutto non è solo una nuova struttura edilizia che dà una veste migliore e più funzionale ai servizi territoriali così come oggi li conosciamo, ma è molto di più e soprattutto è un modo diverso di occuparsi della salute dei cittadini. Pensiamo solo alla attività dei Medici di Medicina Generale, non più frammentata in tanti ambulatori individuali, ma trasformata in una attività integrata all’interno di una equipe multidisciplinare e multiprofessionale. Una vera rivoluzione che però va costruita, perché non basteranno dei muri nuovi a renderla possibile.

Perché le Case della Salute facciano quello che ci si aspetta da loro occorre che i servizi territoriali che vi dovranno confluire abbiano da una parte più risorse umane (se mancano quelle la nuova struttura rimarrà in parte vuota) e dall’altra sappiano costruire un modo nuovo di lavorare. Con mura nuove e teste vecchie, le Case della Comunità non andranno lontano. E quindi non cominceranno a funzionare quando l’ultimo muratore sarà uscito, bensì quando all’interno si comincerà a lavorare in equipe per garantire assistenza proattiva alle persone, lungo i loro percorsi assistenziali.

Finora ci si è occupati (politica compresa) soprattutto delle mura. Adesso è arrivato il momento di riempirla di risorse e cultura nuove. Ed è su questo che il dibattito pubblico e politico dovrebbe svilupparsi per non trovarsi, a lavori finiti, a dire: “beh, tutto qui?”

 

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Nella foto di copertina: L’ingresso dell’Ospedale Umberto I, anni 1925-1930 circa (Fondo Corsini)


Ancona città della salute/1: Dalla Città degli ospedali alla Città senza ospedali

C’era una volta una città con cinque ospedali pubblici… comincia così il racconto di Claudio Maffei, una lunga esperienza di direzione sanitaria dopo un decennio di lavoro all’Università e la passione di chi ama la sua città e vorrebbe contribuire a migliorarla.
Un lavoro in quattro puntate, che ospitiamo con grande piacere per una riflessione aperta sul tema della tutela della salute nella nostra città.
Un percorso che parte, in questa prima puntata, dalla storia della situazione sanitaria nel capoluogo per poi tracciare, nelle prossime, la visione di quella che, ai nostri occhi, dovrebbe essere “la città della salute”.

Ancona è storicamente la città degli Ospedali. Al tempo della frana (dicembre 1982) gli Ospedali pubblici di Ancona erano l’Umberto I (prima pietra 24 giugno 1906), l’Ospedaletto, ovvero il Salesi (collocato al Passetto in una struttura donata al Comitato delle Patronesse il 30 maggio 1920), il Cardiologico, ovvero il Lancisi (sorto nel 1965), il Geriatrico U. Sestilli di Posatora (inaugurato il 22 marzo 1964) e l’Oncologico Francesco Angelini sempre a Posatora. Il bellissimo (in senso strutturale ovviamente) Ospedale Psichiatrico era stato invece chiuso come ospedale nel 1978 a seguito dell’approvazione della Legge Basaglia. Qui non parliamo poi delle case di cura private, per non allungare il brodo.
La storia degli Ospedali di Ancona merita di essere ricostruita, analizzata e valorizzata, perché la situazione del 1982, con un grande Ospedale Regionale, come si chiamava allora, e quattro ospedali specializzati nella stessa città (di cui due quasi senza analoghi in Italia come il Cardiologico e il Geriatrico) è forse unica in Italia per una città di circa 100.000 abitanti.
Una storia che non può essere frutto del caso, ma che credo abbia radici profonde. Tanto è vero che quando “frugo” in rete alla ricerca delle tracce di Ancona com’era mi imbatto ogni tanto in un ospedale qui e in un ospedale là. Ce n’era ad esempio uno a San Francesco alle Scale, che credo abbia funzionato fino alla nascita dell’Umberto I. E ce n’era uno dove c’è oggi (o meglio ci sarebbe) il Museo della Città in Piazza del Papa (del Plebiscito, lo so), la cui sede è costituita da diversi ambienti, alcuni dei quali utilizzano gli spazi dell’Ospedale di S. Tommaso di Canterbury (sec. XIII,dicono). Dunque la vocazione sanitaria e ospedaliera di Ancona rimane e rimarrà importante (vedremo come) e costituisce senz’altro assieme all’Università un polo di attrazione e un volano economico e culturale importante per la città.

Veniamo adesso ai nostri tempi. A distanza di 40 anni dalla frana lo scenario degli ospedali anconetani è completamente cambiato e nei prossimi anni cambierà ancora. Con la frana sono stati chiusi l’Oncologico e il Geriatrico, il primo riassorbito all’interno delle attività dell’Umberto I, mentre il secondo si è trasferito alla Montagnola. Il Cardiologico è confluito pure a Torrette dove si è trasferito ormai da circa 20 anni tutto il vecchio Umberto I. Ma non è finita qui: anche il Salesi si trasferirà in una struttura dedicata a Torrette e l’INRCA si trasferirà nella nuova sede nella zona sud di Ancona. Risultato: in città non ci saranno più ospedali. Giusto o sbagliato? La banale risposta di un tecnico è: inevitabile. Si tratta di ragionare sui motivi e sulle conseguenze di questo cambiamento, e sui suoi effetti sulla salute e sulla vita dei cittadini.

Certo per i cittadini, o almeno per molti di loro, la nostalgia è tanta. Questo vale soprattutto per il Salesi, nelle cui strutture (prima c’era anche Villa Maria) sono nati tanti anconetani e presso il cui Pronto Soccorso e i cui reparti tanti genitori hanno visto e continuano a vedere sciogliersi le proprie ansie e risolti i problemi dei loro figli. Anche il Pronto Soccorso del vecchio Umberto I manca molto a chi vive in città. Del resto Umberto I e Salesi avevano una collocazione in un'area a densa concentrazione abitativa e erano (il Salesi continua ad esserlo) parte sostanziale del panorama urbano. Oltretutto il Salesi ha sempre goduto di una posizione geografica splendida (il suo panorama non credo abbia molti equivalenti tra gli ospedali, non solo in Italia) e l’Umberto I coi suoi viali dava a chi ci lavorava e a chi ci veniva assistito un “respiro” che certo difficilmente riesce a dare un polo ospedaliero come quello di Torrette.

Vediamo adesso i motivi della inevitabilità della riduzione del numero degli ospedali e del loro spostamento fuori città. Oggi un Ospedale ha una natura diversa, molto diversa, non solo rispetto ai tempi dell’Ospedale a San Francesco alle Scale, ma anche rispetto a 40 anni fa. Difficile sintetizzare cause ed effetti di questo cambiamento, ma ci provo. Storicamente, prima della Legge di Riforma Sanitaria del 1978 (la splendida Legge 833 che ha abolito le mutue e istituito il Servizio Sanitario Nazionale con la possibilità di garantire a tutti i cittadini un accesso a tutte le prestazioni sanitarie più importanti) gli ospedali erano cresciuti prevalentemente in base alla libera iniziativa delle diverse comunità locali, tant’è vero che di ospedali nelle Marche ce n’erano tantissimi ovunque, da Sant’Angelo in Vado a Foce: tra pubblici e privati più di 80. Nella sola provincia di Ancona dai primi anni ’80 sono stati chiusi i seguenti: Corinaldo, Ostra, Ostra Vetere, Chiaravalle, Montemarciano, Cupramontana, Filottrano, Montecarotto, Arcevia, Matelica, Sassoferrato, Castelfidardo, Loreto e Recanati. Sono 14 e alcuni di questi avevano un passato glorioso. A solo e unico titolo di esempio ricordo per vita vissuta il Punto Nascita di Recanati, con un percorso per le gravidanze fisiologiche che anticipava di molto i tempi. Anzi, non li anticipava perchè quel percorso non ha poi trovato molti altri “seguaci”.

Vediamo adesso in che modo dopo 40 anni il ruolo e il funzionamento dell’ospedale sono diventati così diversi. In primo luogo ci si ricovera molto meno perché molte prestazioni si fanno fuori dell’ospedale, dagli accertamenti diagnostici a molta attività chirurgica, come ad esempio l’intervento per cataratta. Questo dipende dalle mutate tecniche chirurgiche e anestesiologiche che consentono di effettuare molti interventi in un ambulatorio, o le dimissioni dopo pochissimi giorni per interventi che una volta ti tenevano in ospedale settimane quando non addirittura mesi. Le persone anziane, poi, si cerca quanto più possibile di assisterle a livello domiciliare o residenziale. La durata dei ricoveri è inoltre molto più breve tanto che a volte si ha l’impressione che “ti sbattano fuori”. Fatto sta che ogni anno mediamente si ricovera in ospedale solo un marchigiano su 10 per un ricovero della durata di circa una settimana (pandemia a parte, ovviamente). Si tratta di medie da interpretare, visto che gli anziani si ricoverano di più e i giovani e gli adulti di meno. Quaranta anni fa i ricoveri erano almeno il doppio e duravano pure il doppio. Insomma abbiamo molto meno bisogno di posti letto ospedalieri.
In secondo luogo, gli ospedali ospitano oggi molte più discipline e molti più servizi in modo da offrire nella stessa sede il massimo di competenze disponibili. Negli Ospedali Regionali, come era il vecchio Umberto I, alle classiche e generaliste Chirurgia Generale, Ortopedia e Urologia, si sono affiancate altre unità operative di area chirurgica come la Chirurgia Toracica, la Chirurgia Vascolare, la Chirurgia Plastica, la Chirurgia maxillo-facciale e la Neurochirurgia. Dove c’era la radiologia si sono aggiunte la Neuroradiologia e la radiologia interventistica. Ma questa logica di rendere il più possibile “completi” gli ospedali vale anche per quelli di minori dimensioni. Ciò ha portato ad esempio a concentrare a Torrette discipline che sarebbero rimaste disperse in più ospedali (Umberto I, Lancisi e Salesi).

In terzo luogo, nei moderni ospedali pubblici tutte le unità operative sono organizzate per far fronte alle urgenze e questo richiede molto più personale (medico in modo particolare) specie nel caso di una guardia attiva e cioè con personale presente nella struttura in modo da coprire tutte le ore del giorno, tutti i giorni. E quindi concentrare le urgenze in un unico ospedale rende l'organizzazione molto più efficiente.

In quarto luogo, la medicina ospedaliera si specializza sempre più e quindi le diverse discipline hanno bisogno di casistiche consistenti per far crescere la cultura e la pratica degli operatori. Questo è il motivo ad esempio per cui certe discipline sono presenti solo ad (anzi “in”) Ancona: cardiochirurgia, chirurgia toracica, ecc.

Quinto e ultimo punto: gli ospedali vecchi impediscono un’organizzazione interna degli spazi e dei percorsi ottimale. E quindi se si può meglio farne di nuovi. E se li fai nuovi, mettendoci dentro quello che prima veniva fatto in più ospedali, ecco che si spiega per problemi di viabilità e parcheggio la scelta di portarli fuori città, specie se ricevono pazienti da tutta la Regione.

Così si spoega perché quattro dei cinque ospedali pubblici di Ancona sono finiti a Torrette. Il quinto, l’INRCA, si sposterà invece verso Ancona sud integrandosi con l’Ospedale di Osimo. Ancona avrà così concentrate in una unica sede a Torrette le attività distribuite 40 anni fa tra quattro ospedali. L’Ospedale di Torrette rappresenta oggi l’unico ospedale di secondo livello della Regione, con praticamente tutte o quasi le alte specialità. Grazie a questo può mantenere la sua natura di Azienda e grazie a questo rimane la sede naturale della Facoltà di Medicina.

Tutto bene allora? Niente va mai bene del tutto. Due sono i principali problemi che questa nuova organizzazione lascia aperti: non c’è più un Pronto Soccorso in città e per raggiungere Torrette ci si deve spostare di più. Il primo problema è quello più sentito dai cittadini e porta spesso a ipotizzare la riattivazione di una qualche forma di Pronto Soccorso in città. Vogliamo parlarne? Facciamolo pure, ma rassagnatevi al fatto che un Pronto Soccorso in città non ci sarà più.
un Pronto Soccorso esiste solo se ha dietro un ospedale. Il Pronto Soccorso per sua natura ha bisogno di un’organizzazione ospedaliera con i suoi servizi (radiologia, laboratorio e blocco operatorio in primis) e con le sue competenze specialistiche (ortopedia, cardiologia, neurologia, oculistica, ecc.).
Non può esistere un Pronto Soccorso per i casi meno gravi, perchè che i casi sono più o meno gravi non puoi saperlo prima. E siccome di ospedali in città non ce ne saranno più, anche per il Pronto Soccorso bisognerà rivolgersi a Torrette.
Dove allora le lunghe ed interminabili attese sono destinate ancora ad allungarsi? E dove starebbe allora il miglioramento che la riorganizzazione degli ospedali doveva portare? Il miglioramento sta innanzitutto nella maggiore qualità complessiva del servizio che un ospedale completo come Torrette riesce a garantire a livello di attività di ricovero. Per il resto, Pronto Soccorso e attività ambulatoriali, la situazione migliorerà quando ci sarà più territorio e quindi quando saranno in funzione le Case della Comunità finanziate dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, quando funzioneranno al meglio tutti gli altri servizi territoriali, da quelli consultoriali a quelli residenziali e domiciliari. E quando riusciremo a fare in modo che i servizi territoriali raggiungano le persone più fragili, dagli anziani a chi soffre di problemi di salute mentale. Ma di questo parleremo nella prossima puntata.

 

Foto di copertina: L’ex Umberto I (fonte: Fondo Corsini, anni 1925-1930)