Ancona Città della Salute/3: L'ospedale di Ancona diventa l'Ospedale delle Marche
Il terzo capitolo parte del viaggio nel mondo della sanità anconetana ci porta a Torrette, dove gli Ospedali Riuniti si sono trasformati in "Azienda Ospedaliero-Universitaria delle Marche" diventando il primo e più importante ospedale della Regione. Da questa scelta scaturiscono innegabili vantaggi, ma anche alcuni rischi che Claudio Maffei, medico a riposo, ex docente universitario e dirigente della sanità pubblica, analizza per i lettori di A.
Il tema del “grande” ospedale di Ancona (quello che prima era l’Umberto I e oggi è “Torrette” presso il quale speriamo tra poco troverà spazio anche il nuovo Salesi) è essenziale per la nostra città. Da sempre Ancona ha avuto una vocazione ospedaliera, di cui abbiamo già avuto modo di parlare nel primo degli articoli di questa serie. Una vocazione che l’ha portata ad avere nelle Marche, prima l’unico Ospedale Regionale (quando ancora esisteva questa dizione), e poi ad essere sede della prima e unica Facoltà di Medicina.
Si può tranquillamente - credo - affermare che uno dei “primati” che tutta la Regione “civile” riconosce alla nostra città è proprio a livello di assistenza ospedaliera. Ma anche la Regione “politica” lo riconosce visto che, pur non avendo mai espresso negli ultimi trent’anni un Assessore alla Sanità, Ancona continua ad avere l’unico ospedale di II livello della Regione e quindi l’unico dotato di alte specialità, come ad esempio la cardiochirurgia, la chirurgia toracica, la chirurgia dei trapianti e il Centro Trauma Gravi. Caratteristiche che fanno essere il “nostro” ospedale anche l’unico della Regione con un Dipartimento di Emergenza e Accettazione di II livello con un servizio di elisoccorso e centro di riferimento di reti cliniche importantissime come quella neonatologica.
Per parlare del “nostro” ospedale vorrei usare come spunto di partenza la scelta di trasformare questa estate il nome della Azienda Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti di Ancona Umberto I - G.M. Lancisi - G. Salesi” in “Azienda Ospedaliero-Universitaria delle Marche”.
Il cambio di denominazione è stato deciso dalla Direzione dell’Azienda d’intesa con l’Università Politecnica (a sua volta e non a caso “delle Marche”) all’indomani dell'approvazione da parte della Regione della (a mio parere sciagurata, ma questo è un altro discorso) Legge di Riforma della Sanità delle Marche che ha previsto la soppressione dell’altra Azienda Ospedaliera, quella di Marche Nord, che comprendeva i due ospedali di Pesaro e Fano. Essendo quella di Ancona rimasta la sola Azienda Ospedaliera della Regione, si è ritenuto opportuno rendere evidente anche nella sua denominazione questa unicità facendo così perdere il riferimento nel nome sia alla città che ai suoi tre ospedali storici (il Regionale Umberto I, il Cardiologico Lancisi e l’Ospedaletto Salesi). Si tratta di un caso quasi unico in Italia di Ospedale senza la città nel nome. Le intenzioni alla base del cambio di denominazione sono di per sé buone: rilanciare il ruolo unico e centrale dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria nella Regione.
Secondo me, taglio delle radici a parte (che pure conta), ci sono però alcuni possibili equivoci e altrettanti rischi in questa scelta di cambiare nome. Una scelta importante, come sapevano i Romani secondo cui “nomen omen”: il destino nel nome. Il primo equivoco riguarda il fatto che con il Salesi che va a Torrette (nome troppo locale per chiamare l’Ospedale delle Marche, ma noi continueremo a usarlo) e con l’INRCA che andrà sotto Camerano per gli anconetani quella di Torrette rimarrà l’unica struttura ospedaliera in città. Quella, ad esempio, con il Pronto Soccorso più vicino e più “robusto”, quella con l’offerta ambulatoriale più significativa e quella cui la maggioranza degli anconetani si rivolge per i problemi chirurgici più comuni oltre che per quelli più complessi. L’enfasi sulle sole attività di secondo e terzo livello che caratterizzano il ruolo “marchigiano” (e nazionale) dell’ospedale rischia di far perdere di vista l’importanza delle prestazioni di primo livello della parte dell’ospedale che dovrebbe servire gli anconetani, che infatti a Torrette trovano difficoltà di risposta ad esempio per la patologia chirurgica “minore” che minore non è per chi ne soffre (varici, cataratta ed ernie sono le prime che mi vengono in mente). Il primo rischio della nuova denominazione e della filosofia che la sostiene è dunque che per essere abbastanza “marchigiano” Torrette non ce la faccia più a essere abbastanza anconetano, quando gli anconetani continuano invece ad averne un gran bisogno.
Un secondo rischio è che la nuova denominazione enfatizzi il già pesante ruolo del governo regionale sulle scelte che riguardano il “nostro” ospedale e renda sempre più lontana e passiva la politica locale rispetto a queste scelte. Se l’Ospedale è delle Marche sarà naturale che sia la sola Regione Marche a deciderne i destini. Questa delega non la lascerei tutta in bianco. Il balletto di questi giorni sulla nomina del nuovo Direttore Generale del “nostro” Ospedale costituisce un esempio efficace (mentre scrivo il balletto non è ancora finito).
Terzo rischio: l'esibizione dell'unicità dell’Ospedale di Ancona come sede dell’unica Azienda Ospedaliera delle Marche può ostacolare la sua integrazione con il resto dei servizi. Per svolgere bene il suo ruolo regionale (e nazionale) l’Ospedale di Ancona ha bisogno di fare rete sia con i servizi territoriali locali che con tutta la rete ospedaliera della Regione, a partire dagli ospedali più vicini. Fare rete vuol dire avere obiettivi comuni e una operatività integrata senza competizione. Quindi più il profilo comunicativo dell’Ospedale sarà sobrio e la sua operatività sarà al servizio del sistema sanitario regionale e più la sua centralità verrà riconosciuta. Ricordiamoci che ancora Ancona e il resto della Regione non si amano molto.
Con lo stesso atteggiamento di sobrietà va vissuto il riconoscimento dato di recente all’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ancona, cioè delle Marche, come miglior ospedale pubblico d’Italia. Questo riconoscimento è frutto di una elaborazione dei dati di attività 2021 fatta da una Agenzia del Ministero della Salute. Questa elaborazione notoriamente non è in grado di fare “vere” classifiche perchè utilizza un sistema di indicatori che non copre molti aspetti della qualità dell’assistenza. Si tratta comunque di un ottimo segnale da vivere con la consapevolezza che i miglioramenti da apportare sono tanti e che chi lavora a Torrette o ci va per ricevere assistenza lo sa. Meglio evitare commenti trionfalistici che rischiano di farsi dire “cala giù da qul pajaro!”. Che è la versione anconetana di un invito all’understatement, insomma alla modestia.
Per concludere il ruolo dell’Ospedale di Ancona nella Regione dovrà essere sempre più (facciamo i moderni) “glocal” e quindi capace di concentrarsi contemporaneamente sulla dimensione locale e su quella globale regionale e nazionale. Colgo l’occasione per buttare lì un'idea: perché non trasformare Villa Maria in una sorta di Museo/Centro Studi sugli Ospedali di Ancona? Una storia che merita di essere studiata, conosciuta e meditata.
PS L’occasione è buona anche per fare gli auguri al Prof. Luigi Miti, storico primario della Medicina Generale dell’Umberto I, che il 30 dicembre ha compiuto 108 anni. Un monumento vivente, ancora lucido come sempre nella sua vita.
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Nella foto di copertina: L'Ospedale di Torrette
Ancona città della Salute / 2: Ospedale di Comunità all’Umberto I, costruite le mura, aspettiamo i contenuti
La seconda parte del viaggio nel mondo della sanità cittadina è incentrata sul vecchio Umberto I, inaugurato nel 1911 e chiuso nel 2003. Qui sorgerà uno dei due ospedali di comunità di Ancona. Ma che cosa prevede il progetto? E che cosa serve per far sì che tali strutture siano efficaci e virtuose? Ce ne parla Claudio Maffei, medico a riposo, ex docente universitario e dirigente della sanità pubblica
Il 20 novembre 1911 si inaugurava il vecchio Ospedale Umberto I di Ancona che nel 2003 chiuderà. Tra qualche tempo (mesi probabilmente, anni speriamo proprio di no) riaprirà con attività completamente diverse, che con l’ospedale non c’entrano e che anzi dovrebbero fortemente ridurre la necessità dei cittadini di Ancona di ricorrere ai suoi ospedali, nel frattempo trasferitisi quasi del tutto a Torrette (sia il vecchio Umberto I che il cardiologico Lancisi, mentre a breve -anche qui speriamo presto - seguirà il trasferimento dell’Ospedaletto dei Bambini Salesi). Nella prima parte del mio intervento ho descritto le motivazioni da riduzione nel numero degli Ospedali di Ancona e del loro spostamento del centro. In questo secondo articolo descriverò invece una parte importante del progetto di trasformazione del vecchio Umberto I.

Vediamo innanzitutto cosa prevede il progetto. Dai giornali locali apprendo che alla sanità saranno dedicati i due padiglioni all’ingresso dell’ex Umberto I. Uno ospiterà una Casa della Comunità, dove saranno tra l’altro trasferiti tutti i servizi presenti ora al Poliambulatorio del Viale della Vittoria, e uno ospiterà delle attività residenziali per gli anziani e un hospice. In questo articolo non entrerò nel dettaglio del progetto, che peraltro non conosco, e non farò polemiche sui ritardi vincendo la tentazione di confrontarli con quelli della realizzazione del primo vero Umberto I (credo sei anni, ma non lo voglio ricordare!). Parlerò invece della filosofia che ha ispirato la parte più interessante del progetto, quella che prevede la creazione di una Casa della Comunità, riservando a future occasioni la presentazione delle indicazioni progettuali di dettaglio, magari con il coinvolgimento delle due istituzioni interessate (Azienda Sanitaria Unica Regionale e Comune).
Partiamo da una banale premessa sotto forma di domanda: come facciamo oggi a rispondere ai problemi di salute dei cittadini con meno ospedali e meno posti letto? Nel caso di Ancona, come si fa a farsi bastare un solo ospedale, oltretutto non in centro? E’ evidente che perché la salute degli anconetani non ne risenta occorre che i servizi territoriali cambino e facciano cose che prima non facevano o non facevano abbastanza. Se impostiamo la questione così proviamo a vedere come il nuovo Umberto I, Casa della Comunità e non più ospedale, aiuterà a funzionare bene e a essere sufficiente il nuovo Ospedale Umberto I (con dentro ovviamente anche il Salesi e il Lancisi).
Vediamo da vicino cosa è una Casa della Comunità. Per dare un senso a tale struttura e alle sue funzioni ci conviene partire da un dato: il principale problema di salute che andrebbe gestito in modo diverso in Italia e nelle Marche per ridurre il carico di lavoro degli ospedali è quello delle malattie croniche. Si tratta di una serie di malattie che non possono guarire, ma possono essere prevenute e/o rallentate. Stiamo parlando delle malattie del cuore (come lo scompenso cardiaco), delle malattie croniche dell’apparato respiratorio, del diabete, dell’ictus, della ipertensione arteriosa, ecc. Sono malattie e condizioni che spesso sono presenti nella stessa persona contemporaneamente e che sono la principale causa di invalidità e di morte. Per queste malattie e condizioni si dovrebbe passare da un modello di risposta tradizionale in cui la persona se si aggrava si rivolge al suo medico di medicina generale e questo si rivolge nei casi più rilevanti allo specialista, ad un modello proattivo di solito identificato con il termine di sanità di iniziativa. In questo modello le persone con una condizione cronica vengono educate a gestire al meglio la propria condizione con l’aiuto dei familiari e quando la loro condizione si aggrava hanno a disposizione una equipe che se ne fa carico senza che lui o lei se ne debba più preoccupare. Si usa in questi casi il termine di “presa in carico” da parte dei servizi. Perché questa avvenga occorre superare la organizzazione tradizionale della medicina generale e della pediatria del territorio (la cosiddetta pediatria di libera scelta) in cui i medici tendono a lavorare ciascuno nel proprio ambulatorio di solito con poco personale di supporto amministrativo, per lo più amministrativo, e arrivare ad una organizzazione in cui i medici e i pediatri “di famiglia” lavorano in equipe assieme a infermieri (tra cui quelli corrispondenti alla figura nuova dell’infermiere di famiglia e di comunità), medici specialisti, psicologi, ostetrici, assistenti sociali e altri professionisti delle aree della prevenzione, della riabilitazione e tecnica. La struttura che ospita questa organizzazione deve offrire i suoi servizi nelle 12 ore diurne e con la Guardia Medica coprire le 24 ore. Ecco, abbiamo appena descritto la Casa della Comunità.
Questa delle Case della Comunità è una quasi novità del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che ne ha finanziate dal punto di vista edilizio 29 nelle Marche, di cui due ad Ancona, uno all’ex Umberto I e una all’ex CRASS. Le caratteristiche organizzative e funzionali di queste strutture sono state definite da un Decreto Ministeriale di recente approvazione. Il Decreto prevede in aggiunta a quanto già detto che le Case della Comunità siano sede di una forte integrazione tra i servizi sanitari e sociali, offrano assistenza domiciliare, ospitino le attività consultoriali, si rapportino con i servizi del Dipartimento di Salute Mentale, svolgano attività di prevenzione delle malattie (come gli screening dei tumori) e di promozione della salute e infine siano aperte ai cittadini e quindi anche al volontariato, alle associazioni dei cittadini e dei pazienti e ai cosiddetti caregiver, e cioè i familiari che partecipano attivamente al processo di assistenza ai loro cari.
Il pensiero di chi ha vissuto almeno da bambino la sanità di 50 anni fa, quella di prima della riforma del 1978 che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale (la Legge 833), corre a questo ai vecchi Poliambulatori dell’INAM, quello ad esempio in via Maratta vicino alla Chiesa del Sacro Cuore dove accompagnavo mia madre. No, la Casa della Comunità è un’altra cosa. E soprattutto non è solo una nuova struttura edilizia che dà una veste migliore e più funzionale ai servizi territoriali così come oggi li conosciamo, ma è molto di più e soprattutto è un modo diverso di occuparsi della salute dei cittadini. Pensiamo solo alla attività dei Medici di Medicina Generale, non più frammentata in tanti ambulatori individuali, ma trasformata in una attività integrata all’interno di una equipe multidisciplinare e multiprofessionale. Una vera rivoluzione che però va costruita, perché non basteranno dei muri nuovi a renderla possibile.
Perché le Case della Salute facciano quello che ci si aspetta da loro occorre che i servizi territoriali che vi dovranno confluire abbiano da una parte più risorse umane (se mancano quelle la nuova struttura rimarrà in parte vuota) e dall’altra sappiano costruire un modo nuovo di lavorare. Con mura nuove e teste vecchie, le Case della Comunità non andranno lontano. E quindi non cominceranno a funzionare quando l’ultimo muratore sarà uscito, bensì quando all’interno si comincerà a lavorare in equipe per garantire assistenza proattiva alle persone, lungo i loro percorsi assistenziali.
Finora ci si è occupati (politica compresa) soprattutto delle mura. Adesso è arrivato il momento di riempirla di risorse e cultura nuove. Ed è su questo che il dibattito pubblico e politico dovrebbe svilupparsi per non trovarsi, a lavori finiti, a dire: “beh, tutto qui?”
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Nella foto di copertina: L’ingresso dell’Ospedale Umberto I, anni 1925-1930 circa (Fondo Corsini)
Ancona città della salute/1: Dalla Città degli ospedali alla Città senza ospedali
C’era una volta una città con cinque ospedali pubblici… comincia così il racconto di Claudio Maffei, una lunga esperienza di direzione sanitaria dopo un decennio di lavoro all’Università e la passione di chi ama la sua città e vorrebbe contribuire a migliorarla.
Un lavoro in quattro puntate, che ospitiamo con grande piacere per una riflessione aperta sul tema della tutela della salute nella nostra città.
Un percorso che parte, in questa prima puntata, dalla storia della situazione sanitaria nel capoluogo per poi tracciare, nelle prossime, la visione di quella che, ai nostri occhi, dovrebbe essere “la città della salute”.
Ancona è storicamente la città degli Ospedali. Al tempo della frana (dicembre 1982) gli Ospedali pubblici di Ancona erano l’Umberto I (prima pietra 24 giugno 1906), l’Ospedaletto, ovvero il Salesi (collocato al Passetto in una struttura donata al Comitato delle Patronesse il 30 maggio 1920), il Cardiologico, ovvero il Lancisi (sorto nel 1965), il Geriatrico U. Sestilli di Posatora (inaugurato il 22 marzo 1964) e l’Oncologico Francesco Angelini sempre a Posatora. Il bellissimo (in senso strutturale ovviamente) Ospedale Psichiatrico era stato invece chiuso come ospedale nel 1978 a seguito dell’approvazione della Legge Basaglia. Qui non parliamo poi delle case di cura private, per non allungare il brodo.
La storia degli Ospedali di Ancona merita di essere ricostruita, analizzata e valorizzata, perché la situazione del 1982, con un grande Ospedale Regionale, come si chiamava allora, e quattro ospedali specializzati nella stessa città (di cui due quasi senza analoghi in Italia come il Cardiologico e il Geriatrico) è forse unica in Italia per una città di circa 100.000 abitanti.
Una storia che non può essere frutto del caso, ma che credo abbia radici profonde. Tanto è vero che quando “frugo” in rete alla ricerca delle tracce di Ancona com’era mi imbatto ogni tanto in un ospedale qui e in un ospedale là. Ce n’era ad esempio uno a San Francesco alle Scale, che credo abbia funzionato fino alla nascita dell’Umberto I. E ce n’era uno dove c’è oggi (o meglio ci sarebbe) il Museo della Città in Piazza del Papa (del Plebiscito, lo so), la cui sede è costituita da diversi ambienti, alcuni dei quali utilizzano gli spazi dell’Ospedale di S. Tommaso di Canterbury (sec. XIII,dicono). Dunque la vocazione sanitaria e ospedaliera di Ancona rimane e rimarrà importante (vedremo come) e costituisce senz’altro assieme all’Università un polo di attrazione e un volano economico e culturale importante per la città.
Veniamo adesso ai nostri tempi. A distanza di 40 anni dalla frana lo scenario degli ospedali anconetani è completamente cambiato e nei prossimi anni cambierà ancora. Con la frana sono stati chiusi l’Oncologico e il Geriatrico, il primo riassorbito all’interno delle attività dell’Umberto I, mentre il secondo si è trasferito alla Montagnola. Il Cardiologico è confluito pure a Torrette dove si è trasferito ormai da circa 20 anni tutto il vecchio Umberto I. Ma non è finita qui: anche il Salesi si trasferirà in una struttura dedicata a Torrette e l’INRCA si trasferirà nella nuova sede nella zona sud di Ancona. Risultato: in città non ci saranno più ospedali. Giusto o sbagliato? La banale risposta di un tecnico è: inevitabile. Si tratta di ragionare sui motivi e sulle conseguenze di questo cambiamento, e sui suoi effetti sulla salute e sulla vita dei cittadini.
Certo per i cittadini, o almeno per molti di loro, la nostalgia è tanta. Questo vale soprattutto per il Salesi, nelle cui strutture (prima c’era anche Villa Maria) sono nati tanti anconetani e presso il cui Pronto Soccorso e i cui reparti tanti genitori hanno visto e continuano a vedere sciogliersi le proprie ansie e risolti i problemi dei loro figli. Anche il Pronto Soccorso del vecchio Umberto I manca molto a chi vive in città. Del resto Umberto I e Salesi avevano una collocazione in un'area a densa concentrazione abitativa e erano (il Salesi continua ad esserlo) parte sostanziale del panorama urbano. Oltretutto il Salesi ha sempre goduto di una posizione geografica splendida (il suo panorama non credo abbia molti equivalenti tra gli ospedali, non solo in Italia) e l’Umberto I coi suoi viali dava a chi ci lavorava e a chi ci veniva assistito un “respiro” che certo difficilmente riesce a dare un polo ospedaliero come quello di Torrette.
Vediamo adesso i motivi della inevitabilità della riduzione del numero degli ospedali e del loro spostamento fuori città. Oggi un Ospedale ha una natura diversa, molto diversa, non solo rispetto ai tempi dell’Ospedale a San Francesco alle Scale, ma anche rispetto a 40 anni fa. Difficile sintetizzare cause ed effetti di questo cambiamento, ma ci provo. Storicamente, prima della Legge di Riforma Sanitaria del 1978 (la splendida Legge 833 che ha abolito le mutue e istituito il Servizio Sanitario Nazionale con la possibilità di garantire a tutti i cittadini un accesso a tutte le prestazioni sanitarie più importanti) gli ospedali erano cresciuti prevalentemente in base alla libera iniziativa delle diverse comunità locali, tant’è vero che di ospedali nelle Marche ce n’erano tantissimi ovunque, da Sant’Angelo in Vado a Foce: tra pubblici e privati più di 80. Nella sola provincia di Ancona dai primi anni ’80 sono stati chiusi i seguenti: Corinaldo, Ostra, Ostra Vetere, Chiaravalle, Montemarciano, Cupramontana, Filottrano, Montecarotto, Arcevia, Matelica, Sassoferrato, Castelfidardo, Loreto e Recanati. Sono 14 e alcuni di questi avevano un passato glorioso. A solo e unico titolo di esempio ricordo per vita vissuta il Punto Nascita di Recanati, con un percorso per le gravidanze fisiologiche che anticipava di molto i tempi. Anzi, non li anticipava perchè quel percorso non ha poi trovato molti altri “seguaci”.
Vediamo adesso in che modo dopo 40 anni il ruolo e il funzionamento dell’ospedale sono diventati così diversi. In primo luogo ci si ricovera molto meno perché molte prestazioni si fanno fuori dell’ospedale, dagli accertamenti diagnostici a molta attività chirurgica, come ad esempio l’intervento per cataratta. Questo dipende dalle mutate tecniche chirurgiche e anestesiologiche che consentono di effettuare molti interventi in un ambulatorio, o le dimissioni dopo pochissimi giorni per interventi che una volta ti tenevano in ospedale settimane quando non addirittura mesi. Le persone anziane, poi, si cerca quanto più possibile di assisterle a livello domiciliare o residenziale. La durata dei ricoveri è inoltre molto più breve tanto che a volte si ha l’impressione che “ti sbattano fuori”. Fatto sta che ogni anno mediamente si ricovera in ospedale solo un marchigiano su 10 per un ricovero della durata di circa una settimana (pandemia a parte, ovviamente). Si tratta di medie da interpretare, visto che gli anziani si ricoverano di più e i giovani e gli adulti di meno. Quaranta anni fa i ricoveri erano almeno il doppio e duravano pure il doppio. Insomma abbiamo molto meno bisogno di posti letto ospedalieri.
In secondo luogo, gli ospedali ospitano oggi molte più discipline e molti più servizi in modo da offrire nella stessa sede il massimo di competenze disponibili. Negli Ospedali Regionali, come era il vecchio Umberto I, alle classiche e generaliste Chirurgia Generale, Ortopedia e Urologia, si sono affiancate altre unità operative di area chirurgica come la Chirurgia Toracica, la Chirurgia Vascolare, la Chirurgia Plastica, la Chirurgia maxillo-facciale e la Neurochirurgia. Dove c’era la radiologia si sono aggiunte la Neuroradiologia e la radiologia interventistica. Ma questa logica di rendere il più possibile “completi” gli ospedali vale anche per quelli di minori dimensioni. Ciò ha portato ad esempio a concentrare a Torrette discipline che sarebbero rimaste disperse in più ospedali (Umberto I, Lancisi e Salesi).
In terzo luogo, nei moderni ospedali pubblici tutte le unità operative sono organizzate per far fronte alle urgenze e questo richiede molto più personale (medico in modo particolare) specie nel caso di una guardia attiva e cioè con personale presente nella struttura in modo da coprire tutte le ore del giorno, tutti i giorni. E quindi concentrare le urgenze in un unico ospedale rende l'organizzazione molto più efficiente.
In quarto luogo, la medicina ospedaliera si specializza sempre più e quindi le diverse discipline hanno bisogno di casistiche consistenti per far crescere la cultura e la pratica degli operatori. Questo è il motivo ad esempio per cui certe discipline sono presenti solo ad (anzi “in”) Ancona: cardiochirurgia, chirurgia toracica, ecc.
Quinto e ultimo punto: gli ospedali vecchi impediscono un’organizzazione interna degli spazi e dei percorsi ottimale. E quindi se si può meglio farne di nuovi. E se li fai nuovi, mettendoci dentro quello che prima veniva fatto in più ospedali, ecco che si spiega per problemi di viabilità e parcheggio la scelta di portarli fuori città, specie se ricevono pazienti da tutta la Regione.
Così si spoega perché quattro dei cinque ospedali pubblici di Ancona sono finiti a Torrette. Il quinto, l’INRCA, si sposterà invece verso Ancona sud integrandosi con l’Ospedale di Osimo. Ancona avrà così concentrate in una unica sede a Torrette le attività distribuite 40 anni fa tra quattro ospedali. L’Ospedale di Torrette rappresenta oggi l’unico ospedale di secondo livello della Regione, con praticamente tutte o quasi le alte specialità. Grazie a questo può mantenere la sua natura di Azienda e grazie a questo rimane la sede naturale della Facoltà di Medicina.
Tutto bene allora? Niente va mai bene del tutto. Due sono i principali problemi che questa nuova organizzazione lascia aperti: non c’è più un Pronto Soccorso in città e per raggiungere Torrette ci si deve spostare di più. Il primo problema è quello più sentito dai cittadini e porta spesso a ipotizzare la riattivazione di una qualche forma di Pronto Soccorso in città. Vogliamo parlarne? Facciamolo pure, ma rassagnatevi al fatto che un Pronto Soccorso in città non ci sarà più.
un Pronto Soccorso esiste solo se ha dietro un ospedale. Il Pronto Soccorso per sua natura ha bisogno di un’organizzazione ospedaliera con i suoi servizi (radiologia, laboratorio e blocco operatorio in primis) e con le sue competenze specialistiche (ortopedia, cardiologia, neurologia, oculistica, ecc.).
Non può esistere un Pronto Soccorso per i casi meno gravi, perchè che i casi sono più o meno gravi non puoi saperlo prima. E siccome di ospedali in città non ce ne saranno più, anche per il Pronto Soccorso bisognerà rivolgersi a Torrette.
Dove allora le lunghe ed interminabili attese sono destinate ancora ad allungarsi? E dove starebbe allora il miglioramento che la riorganizzazione degli ospedali doveva portare? Il miglioramento sta innanzitutto nella maggiore qualità complessiva del servizio che un ospedale completo come Torrette riesce a garantire a livello di attività di ricovero. Per il resto, Pronto Soccorso e attività ambulatoriali, la situazione migliorerà quando ci sarà più territorio e quindi quando saranno in funzione le Case della Comunità finanziate dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, quando funzioneranno al meglio tutti gli altri servizi territoriali, da quelli consultoriali a quelli residenziali e domiciliari. E quando riusciremo a fare in modo che i servizi territoriali raggiungano le persone più fragili, dagli anziani a chi soffre di problemi di salute mentale. Ma di questo parleremo nella prossima puntata.
Foto di copertina: L’ex Umberto I (fonte: Fondo Corsini, anni 1925-1930)