Affascinante quanto complessa, Ancona vive in precario equilibrio tra il “troppo bello” dei suoi monumenti e il “veramente brutto” di alcune “incomprensibili sovrastrutture”. La sfida: sfruttare i suoi contenitori spettacolari per valorizzare il potenziale culturale delle Marche. La penna acuta di Pippo Ciorra traccia la rotta di una città che vuole finalmente recitare un ruolo da capoluogo.

Abitare ad Ancona è un privilegio che bisogna meritarsi. Lo è per l’incredibile ricchezza morfologica della città, un coacervo irripetibile di colline, valli, scogliere, falesie, rive, banchine, ramblas, fortificazioni, monumenti che hanno richiesto anni e anni di silenziosa osservazione prima che mi sentissi in grado di ricostruirne un’immagine mentale tridimensionale, e forse anche una planimetrica. L’emblema percettivo della città per me era quello strano corso principale che va da mare a mare (e da secolo a secolo), lasciando interdetto il visitatore inesperto, e confondendo continuamente l’idea di dove si trovino il nord, il sud, eccetera. Ancona è un privilegio anche per la presenza di un grande porto e del disagio inevitabile che implica per la città (uno status che vale per tutte le città portuali). Si tratta però di un disagio che ha un’altra faccia straordinariamente positiva e stimolante. Non solo per le sue implicazioni economiche, certo non secondarie, ma perché costringe quotidianamente la città a fare i conti coi flussi di persone, la diversità di lingue, nazionalità, etnie, motivazioni, ambizioni. Un cuore dinamico e scontroso, insomma, che batte forte al centro del tessuto urbano, irradiando allo stesso tempo fascino, energia e problemi.

Il porto è quindi la sintesi perfetta della città, legato al mare, ostile e impenetrabile all’entroterra, stressato tra il troppo bello dei suoi monumenti e il troppo brutto di alcune sue sovrastrutture, pubblico e segregato allo stesso tempo, estroverso e pieno di (spazi) segreti. È forse il carattere che più distingue Ancona: un paesaggio dalla morfologia estrema e affascinante dove è quasi impossibile trovare un registro intermedio, uno spazio neutro che colmi la distanza vertiginosa tra i suoi pregi e i suoi difetti (urbanistici e architettonici). La città insomma conosce solo due registri: il bellissimo e il veramente brutto, con la conseguenza che chi la percorre è sottoposto a uno stress estetico continuo, che si può assorbire solo lentamente, con l’aiuto della conoscenza delle sue vicende, con la consapevolezza della sua geografia, con l’abitudine, con la capacità che si sviluppa di affezionarsi ai luoghi a prescindere dal loro aderire a un canone estetico tradizionale. Per molto tempo una delle mie “architetture anconetane” preferite era un benzinaio all’uscita sud della galleria Risorgimento, una macchia gialla che tagliava diagonalmente una collina e ricordava (alla lontana) certi edifici di Zaha Hadid. Convincemmo un fotografo importante (Olivo Barbieri) a farne un ritratto, che ovviamente conservo con amore. Poi il benzinaio ha cambiato gestore, il giallo è diventato un colore più anonimo, in vista è rimasta solo la piccola violenza alla pendice di una collina e addio effetto Hadid.

Quali sono i problemi più urgenti di Ancona (almeno nel campo della cultura urbana) e quali sono le azioni che si potrebbero mettere in campo per risolverli? Immagino che ci sia questo nella testa di chi mi ha chiesto questo testo. Non è una domanda difficile a cui dare risposta; quelle difficili, data la forma, la storia e la struttura della città, sono le risposte operative da proporre per ognuno dei problemi. Ancona ha certamente un problema di viabilità, legato appunto alla sua morfologia e al fatto che il porto è nel cuore della città. Ma è una questione che lasciamo volentieri agli esperti e agli urbanisti, davvero bravi, della città. Di certo, se si crede allo sviluppo ulteriore del porto, prima o poi un modo efficiente per collegarlo alle grandi infrastrutture andrà trovato. Per il resto, più che problemi Ancona ha molte opportunità ancora da cogliere, e forse su queste dovremmo puntare l’attenzione.

La prima, o per lo meno quella della quale per me è più facile parlare, è il rapporto tra cultura e città. Come tutte le città italiane Ancona abbonda di contenitori spettacolari. La Mole, la Polveriera, il Teatro delle Muse, il Palazzo degli Anziani, la Cittadella e via dicendo, distribuiti ai quattro angoli della città. Di queste il teatro è ovviamente quello con l’identità più consolidata, naturalmente legata a una vocazione comune a tutto il territorio regionale, oggetto di un intervento architettonico di qualità alla fine del secolo scorso e tuttora legato a un tessuto che continua a produrre eccellenze. L’urgenza per le Muse non implica invenzioni o cambi di rotta radicali, dipende solo dalla programmazione e dalla capacità di assicurare al teatro un buon management e budget adeguati. Diverso il discorso per gli altri contenitori ad alto tasso di heritage, soprattutto la Mole Vanvitelliana, isola sublime e accerchiata dall’aggressività portuale. La Mole per me rappresenta il termometro della potenzialità culturale della città. Finora lo sforzo -giusto- è stato di recuperarla e destinarla ad attività culturali (e formative). Ospita grandi mostre itineranti, alcuni festival interessanti, molti eventi. Forse il passo successivo potrebbe essere quello di rompere l’accerchiamento portuale estendendo l’aura della Mole oltre i confini della città, nella regione e nella città costiera adriatica transregionale.

Osservando le Marche ci si rende conto che esiste una produzione culturale e artistica polverizzata e instancabile, spesso di qualità alta o altissima, legata a questo o quel dispositivo locale (un’accademia, un gruppo di artisti, una facoltà, una galleria d’arte, una genealogia specifica). Una produzione che però va in parte dispersa o lascia poche tracce perché mancano punti di riferimento di scala maggiore, nazionale o internazionale, hub in grado di coagulare l’energia diffusa (con ovvie e ben note eccezioni relative per esempio ai festival musicali). Con gli studenti molte volte abbiamo vagheggiato in modo molto accademico di un museo dell’arte contemporanea regionale al Lazzaretto, o comunque al porto, imperniato sul lavoro dei maestri che hanno segnato questa regione, Licini, De Dominicis, Giacomelli, Cucchi, Pomodoro, tanto per cominciare. Forse è un’idea ingenua, difficile da attuare in una regione così plurale e così piena di autonomie da proteggere, ma è certo che se la città vuole mostrarsi capace di scavalcare le colline che la circondano e costruire un legame “da capoluogo” col suo territorio, allora forse è proprio sulla cultura che può e deve puntare, facendo del Lazzaretto -o di un altro dei suoi monumenti- il centro di una rete a cui non manca certo l’energia. La città insomma, oltre ad attirare e ospitare cultura, può essere più consapevole della sua capacità di produrla, e di farne un medium delle sue relazioni col mondo. La città peraltro ha esattamente la dimensione ideale da “sede di festival” importante, con una popolazione a metà tra Mantova e Modena, alcune sedi eccellenti, una corona di Comuni e località turistiche che costituiscono un bacino di utenza molto interessante.

Ancona ha una forte tradizione di (buona) urbanistica. La qualità dell’architettura e degli spazi urbani anconetani soffre invece di evidenti alti e bassi. Dagli splendori di alcuni edifici e piazze storiche si scivola verso un tono molto più variabile negli interventi moderni e contemporanei. Non mancano perle inattese (e non sempre riconosciute), come il mercato del pesce di Gaetano Minnucci o la lunga stecca inclinata di Sergio Lenci nelle aree della ricostruzione post-terremoto (che credo più amata da chi ci vive rispetto a chi la guarda), qualche cameo interessante nei quartieri esterni, e ovviamente siamo tutti pieni di gratitudine postuma per Danilo Guerri e Paola Salmoni per il restauro delle Muse. Ma non si può negare che l’impressione generale sia quella di una città in cui gli sforzi degli architetti sono un po’ oscurati da un continuum edilizio in media non particolarmente “bello”. Dipenderà forse dal fatto che mancano in città le tracce architettoniche tipiche del periodo tra le due guerre che troviamo in molti altri centri urbani importanti. Manca insomma l’eredità architettonica degli anni ’20 e ’30, e lo slancio di modernità degli anni ’50 è costretto a crescere su una tabula rasa e a basarsi su casi eccellenti e sporadici, senza affermarsi a sufficienza nel tessuto urbano. Tutto questo per dire che la città ha bisogno di interventi di qualità. Il porto, i molti edifici in attesa di progetto, i vecchi contenitori da restaurare o riciclare -viene in mente il Mercato delle Erbe- sono occasioni straordinarie, che la città dovrà cercare di cogliere per dare il senso di una consapevolezza del proprio ruolo e della fiducia nel futuro che devono competerle.

Ho omesso di scrivere di un altro sublime intreccio di cultura e spazio che segna lo splendore e il menu di problemi della città, vale a dire tutta l’area “in quota”, col Cardeto, i Fari, la zona archeologica e via dicendo. È una specie di tesoro dormiente e segreto della città, un parco storico di dimensioni monumentali di potenzialità smisurata. “Una fatica arrivarci” direbbe qualcuno, e ancora più difficile comunicarne al mondo (turisti, villeggianti, non-anconetani) l’esistenza e l’unicità. Forse è questa l’occasione per fare della “mobilità creativa” e provare ad applicare metodi di accessibilità non ortodossi: tapis-roulant, mini-funivie, navette elettriche, funicolari, ascensori che leghino la quota della città a quella del Cardeto e facciano del parco stesso uno dei contenitori possibili per una strategia oculata di eventi. Ancona insomma è bella e complessa, ma proprio nelle pieghe della sua complessità si possono trovare spazi e suggerimenti per risolvere alcuni problemi e per aprire nuovi scenari.

 

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Foto di copertina: splendida veduta della Mole Vanvitelliana di Francesca Bianchelli