20/09/2024

Con le elezioni alle porte, la nostalgia di una Provincia più vicina alle persone


Domenica 29 Settembre 41 province italiane rinnoveranno i rispettivi Consigli. Tentare di comprendere il funzionamento degli enti provinciali dopo la disastrosa riforma Delrio del 2014, già di suo assurda e resa pienamente folle dall’esito negativo del Referendum costituzionale del 2016, è impresa quasi impossibile anche per gli addetti ai lavori: si tratta di un meccanismo farraginoso e respingente per i cittadini, contrario a ogni principio partecipativo e alla sacrosanta esigenza di linearità e chiarezza.
La platea degli aventi diritto è molto ristretta (i consiglieri comunali), l’elezione dei Consigli è in questo caso asincrona rispetto a quella del Presidente, i Consiglieri provinciali hanno funzioni e prerogative quasi nulle a cui corrisponde un numero limitato di deleghe in capo agli enti non dotati delle risorse sufficienti per funzionare in modo efficace.

Il presidente della Provincia di Ancona Daniele Carnevali

Prendiamo l’esempio della Provincia di Ancona: il Presidente è il Sindaco di Polverigi Daniele Carnevali (PSI), eletto il 19 Dicembre 2021 dai consiglieri comunali delle varie assisi comunali della provincia che si sono recati nell’unico seggio ubicato presso la sede dell’ente premiando con 46143 “voti ponderati” la lista di centrosinistra a suo sostegno “Unione Democratica” a cui sono stati assegnati 6 seggi; 5, invece, i rappresentanti eletti con la lista di centrodestra “Ancona La nuova provincia” (39134 “voti ponderati”) e 1 seggio alla lista “Ancona per i beni comuni”. A quasi tre anni di distanza, i consiglieri comunali torneranno al voto solo ed esclusivamente per eleggere il nuovo Consiglio provinciale, mentre il Presidente rimarrà in carica fino alla fine del 2025. Questa volta, sono solo due le liste in campo: da una parte, la solita “Unione Democratica” (centrosinistra); dall’altra, “Ancona: provincia di tutti” (centrodestra).

Nelle conversazioni con gli amici, nei bar, nei luoghi di ritrovo probabilmente non sentirete animate discussioni e pronostici su chi riuscirà ad arrivare a 7 consiglieri provinciali, se finirà 6 pari, se ci sarà un “ribaltone” o se si confermerà una maggioranza di centrosinistra. Sarebbe tuttavia ingeneroso “dare la colpa” alla disattenzione o alla presunta mancanza di senso civico e disinteresse degli abitanti della nostra provincia: chiediamoci piuttosto come potrebbero sentirsi emotivamente partecipi di una elezione che non li coinvolge (sono infatti esclusi dal corpo elettorale), che inciderà presumibilmente poco sulle loro vite, riguardando un ente che è stato negli ultimi anni umiliato in tutti i modi e che esiste ancora solo perché gli italiani hanno votato NO al Referendum del 2016, che intendeva eliminare il termine “province” anche dalla Costituzione. Come non ricordare l’insistente propaganda populista alimentata da libri come “La Casta” (scritto per tirare la volata a Luca Cordero di Montezemolo e che ha finito per favorire il Movimento 5 Stelle per una curiosa eterogenesi dei fini), iniziata già nei primi anni Duemila e che ha visto negli anni ’10 del nostro secolo una sorte di ipnosi collettiva: le province per un certo periodo sono state viste come l’origine di tutti i mali, il simbolo stesso di tutti gli sprechi e di tutte le inefficienze della macchina statale. Solo eliminandole l’Italia avrebbe potuto tornare a crescere grazie a favolosi risparmi (come se le Province avessero rappresentato solo una inutile e ingentissima spesa!); la vita istituzionale e politica avrebbero avuto una svolta con l’apertura di una nuova fase fatta di moralità, rigore, serietà; tutto il Paese si sarebbero tolto di mezzo una palla al piede principale causa di tutti i ritardi e le arretratezze, da nord a sud.
Eppure, le province rappresentano una delle articolazioni essenziali dello Stato unitario sin dal 1861, a cui si sono affiancate le Regioni solo più di 100 anni dopo (1970): proprio per questo, è forte e sentita l’appartenenza dei cittadini ai livelli provinciali, di cui peraltro si sente sempre più il bisogno in anni nei quali si parla continuamente di aree vaste, aggregazioni, città metropolitane, strategie integrate. Fino al primo decennio del Duemila le amministrazioni provinciali hanno rappresentato dei punti di riferimento solidi per i cittadini e non sono pochi i meriti che vanno riconosciuti a Presidenti di grande spessore (penso, per il territorio anconetano, a Marisa Saracinelli, Enzo Giancarli, Patrizia Casagrande), su tante questioni in ambito culturale, ambientale, infrastrutturale. Guardando con occhio critico e con la necessaria distanza storica a quella assurda stagione populista, credo che ben pochi ripeterebbero oggi quegli slogan definitivi e brutali contro le Province, organismi a cui dovrebbe piuttosto andare la nostra gratitudine sotto molteplici aspetti.

Appare infatti evidente a qualsiasi osservatore come l’attuale stato delle cose sia insostenibile: perché, invece di occuparsi di riforme sbagliate e controproducenti, la politica non tenta di mettere in cantiere una seria riforma dello Stato, quanto mai urgente? My two cents: eliminare le elezioni di secondo livello, tornando all’elezione diretta da parte dei cittadini del Presidente e del Consiglio provinciale attraverso le preferenze in modo sincrono, restituendo alcune deleghe strategiche che la riforma del 2014 aveva assegnato alle Regioni. Procedere contestualmente a una riforma sul modello francese che preveda un massiccio accorpamento delle attuali Regioni in una logica macroregionale, peraltro coerente con l’impostazione europea, mantenendo l’elezione diretta del Presidente e dei Consigli “macroregionali” attraverso le preferenze adeguando il numero dei consiglieri regionali.
Nella consapevolezza che non si può ripetere il passato e non è possibile dunque tornare sic et simpliciter allo status quo ante dopo una riforma sbagliata, ma importante come la Delrio del 2014, c’è la necessità oggi di trovare un nuovo e più avanzato equilibrio tra la legittima esigenza di contenere le spese e l’altrettanto, forse più legittima ancora esigenza di accorciare le distanze tra elettori ed eletti, cittadini e istituzioni. Peraltro, mentre l’attuale assetto delle province rende questi enti depotenziati e lontani dai cittadini, dove servirebbe invece un rapporto diretto con il territorio; è proprio la loro assenza ad aver causato uno snaturamento delle regioni, enti che nelle intenzioni del legislatore (1970) avrebbero dovuto fare essenzialmente programmazione, ma che invece nel tempo si sono schiacchiate, anche per la loro ridotta dimensione, sulla gestione dell’ordinario, con le note vicende delle Tabelle C e Tabelle E per rispondere alle “esigenze organiche del territorio” come l’acquisto di tosaerba, contributi a ruzzodromi, sagre, associazioni. Troppo semplice dare la colpa al vero o presunto clientelismo dei singoli consiglieri: le regioni si occupano di tali questioni invece che di programmazione anche e soprattutto per il venir meno delle province come enti intermedi. Una riforma, insomma, che farebbe bene a tutte le articolazioni territoriali dello Stato.