È in corso un vivace processo di ripensamento del paradigma urbano che costringe le città a scegliere a cosa voler assomigliare e a quale immaginario tendere nel prossimo futuro
A scala umana, della prossimità, dei quindici minuti. Policentrica, flessibile, circolare, resiliente: il dibattito contemporaneo su come saranno le città e i territori dopo il Covid-19 pullula di ipotesi e definizioni nuove, a testimonianza che la città – data per spacciata durante la pandemia – è tutt’altro che morta. Al contrario, è in corso un vivace processo di ripensamento del paradigma urbano che costringe le città a scegliere a cosa voler assomigliare e a quale immaginario tendere nel prossimo futuro. Per alcune si tratta di una scelta naturale, l’esito di percorsi civici, politici e amministrativi che vanno avanti da anni (pensiamo a Milano, Bologna, Palermo). Per altre, dalla ridotta densità (intesa non solo in termini di popolazione, ma soprattutto di opportunità di lavoro e attività) e/o dalla vocazione meno nitida, la sfida è più faticosa e tutt’altro che banale. Come raccoglierla dunque? Sembra emergere con forza una parola d’ordine, su tutte: “riappropriazione”. In senso figurato, del tempo e delle relazioni, per una città della prossimità. Ma anche tangibile e concreto: riappropriazione di quartieri, aree dismesse, strade e piazze da parte degli abitanti. Che da Nord a Sud chiedono di poter partecipare a scelte e processi urbani, in un rinnovato “corpo a corpo” con i luoghi della loro quotidianità. Si aprono così scenari nuovi, che diventano l’occasione per dare concretezza alle politiche place-based anche in città di piccole e medie dimensioni. Rispetto a questi scenari dove si colloca Ancona? Dopo qualche decennio di torpore e disinteresse generalizzati dei cittadini verso le dinamiche urbane, negli ultimi anni la città ha conosciuto un progressivo risveglio, concretizzatosi in progettualità che sono state in grado di intercettare il rinnovato desiderio di protagonismo civico e dare nuova linfa ai quartieri: esperienze come Arcopolis agli Archi, Palombellissima alla Palombella, Direzione Parco a Vallemiano sono solo alcuni – ma significativi – esempi, curati dall’associazionismo locale (tradizionalmente molto diffuso ad Ancona), spesso senza alcun sostegno da parte dell’Amministrazione locale – quanto meno nelle loro fasi iniziali. Quest’ultimo aspetto non sorprende: l’Amministrazione condivisa, basata sugli istituti della co-programmazione e della co-progettazione, è un orizzonte da noi ancora distante e dunque progettualità come quelle succitate sono di fatto lasciate completamente in mano al terzo settore e alla sua capacità di intercettare risorse ad altri livelli (crowdfunding, risorse statali o private). Tutto ciò testimonia uno scarso interesse verso i processi di rigenerazione urbana come azione strategica, una scarsa consapevolezza circa le potenzialità delle dinamiche di riappropriazione sopra citate e un disallineamento con la parte più viva e competente della comunità che, come ci ricorda Davide Agazzi nel suo contributo, «non si accontenta più di essere consultata, ma chiede il potere di co-decidere e chiede di essere coinvolta nella realizzazione dei progetti più significativi. E si comporta così perché si rende conto, consapevolmente o meno, di essere un ingrediente essenziale per la buona riuscita di un progetto». L’assenza dell’Amministrazione locale dietro agli interventi di riattivazione di comunità di maggior successo ad Ancona, così come l’insufficiente attenzione rivolta alla co-progettazione con i gruppi sociali ed economici, rappresenta una forte criticità che si ripercuote sulla capacità della città di affrontare con successo le sfide delle trasformazioni urbane. Ecco perché ad Ancona si avverte l’esigenza di “infrastrutture di cittadinanza”, luoghi dove connettere bisogni quotidiani, aspirazioni collettive e comunità. Dove coltivare e potenziare la cittadinanza attiva, luoghi a cui ci si riferisce anche come “nuovi centri culturali”: una definizione ampia che comprende e accomuna spazi anche molto eterogenei, spesso frutto di percorsi di rigenerazione urbana che vedono la Pubblica Amministrazione implementare formule innovative di gestione, accanto al privato e alla cittadinanza attiva. Un’esigenza, seppur generalizzata e diffusa, che non sempre si concretizza in pratiche; spesso sono necessari interventi “dall’alto” per sbloccare il potenziale di un territorio, come testimoniano buone pratiche tra cui quella di Palazzo Guerrieri a Brindisi. Ecco allora un ulteriore terreno di sperimentazione e innovazione che può far leva sui vuoti urbani presenti ad Ancona, intercettando risorse anche dal PNRR, programma che dedica ampio margine, di spesa e manovra, agli interventi di rigenerazione sui territori. La scommessa è aperta. Ci sono oggi le condizioni per recuperare il campo perduto e per invertire la rotta. Le risorse economiche non mancheranno. Servirà il coraggio di usare metodi e pratiche diversi da quelli sin qui praticati e di gestire i processi di trasformazione urbana puntando su competenze, attivazione e partecipazione della comunità e innovazione sociale.
Questo articolo è contenuto in A: numero 1 / dicembre 2021 – Foto: Francesca Tilio

Mara Polloni
Si occupa di progettazione e management culturale. Cura progetti nell’ambito della rigenerazione urbana e dello sviluppo dei territori a traino culturale.