Patti di collaborazione, così un bene pubblico diventa bene comune. E i cittadini tornano protagonisti
La nostra intervista al fondatore e presidente emerito di “Labsus” Gregorio Arena. A lui si deve l’invenzione di un potente ed efficace strumento di sussidiarietà e amministrazione condivisa
Da qualche settimana ha lasciato la presidenza di Labsus, il Laboratorio per la Sussidiarietà che ha fondato 15 anni fa e con il quale ha costruito un nuovo potente strumento di cittadinanza attiva, i patti di collaborazione per la gestione dei beni comuni. «È solo un passo di lato -chiarisce Gregorio Arena- dopo tanti anni un ricambio è fisiologico e necessario, anche perché non è buon segno quando un’associazione si identifica troppo con una persona. In ogni caso sono stato eletto presidente emerito, quindi continuerò a far parte del direttivo e ad impegnarmi per Labsus». Un’attività che il professor Arena dopo la pensione porta avanti a tempo pieno e con grande vigore. Fino a 2 anni fa percorreva migliaia di chilometri su e giù per lo Stivale, incontrando istituzioni e cittadini interessati ad approfondire il concetto di amministrazione condivisa. La pandemia lo ha costretto a fermarsi per un po’, ma ha già ricominciato a programmare i prossimi viaggi, e anzi prima di iniziare questa intervista su Zoom ci dà appuntamento a presto per una chiacchierata dal vivo ad Ancona, una città che finora non ha saputo comprendere le potenzialità e la straordinarietà dei patti di collaborazione. Allora cerchiamo di capirne un po’ di più.
Professore, per anni la partecipazione dei cittadini alla Pubblica Amministrazione è stata una chimera sempre evocata ma quasi mai raggiunta e praticata. A forza solo di celebrarla ed esaltarla vanamente nel tempo ha perso di significato e fascino. Vero è che sino a qualche anno fa gli strumenti a disposizione degli amministratori locali erano piuttosto inadeguati. Questo però sino al 22 febbraio 2014, da quando cioè il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni è stato presentato a Bologna e messo a disposizione di tutti i comuni italiani. Da allora, come lei ci dice “non c’è più alibi per coloro che preferiscono mantenere i cittadini nel ruolo di amministrati, utenti, assistiti e così via, anziché farli diventare, insieme con le amministrazioni, protagonisti nella soluzione dei problemi della comunità”. Ci spiega come effettivamente funzionano il Regolamento ed i patti di collaborazione e perché questi strumenti sono così efficaci?
«Sono efficaci perché sono semplici, non richiedono competenze particolari e sono alla portata di tutti. In Italia si parla di partecipazione dalla metà degli anni ‘70 del secolo scorso, ma è un concetto che ha dato luogo a molteplici interpretazioni. In Francia, per esempio, è in vigore una legge sul Debat Public in base alla quale ogni progetto di opera pubblica deve essere preliminarmente discusso con i cittadini prima di essere realizzato. In Italia invece le amministrazioni adottano, del tutto legittimamente, decisioni importanti che riguardano una collettività sulla base della delega ricevuta al momento del voto (per esempio sulla localizzazione di un inceneritore o di una discarica) e poi sono costrette a confrontarsi (a volte anche in maniera conflittuale) con i comitati di cittadini che nascono per opporsi a quel progetto. Sarebbe preferibile coinvolgere i cittadini prima di decidere, anche se ovviamente è impossibile pensare di poter organizzare assemblee per ogni decisione, anche perché ci sono diversi problemi. Innanzitutto quello dell’asimmetria informativa, a causa del quale gli amministratori hanno competenze e informazioni che i cittadini non possono avere. E poi ancora c’è la questione della legittimità delle assemblee di cittadini, in altri termini, chi è legittimato a parteciparvi per parlare (e decidere) a nome dell’intera comunità? A volte si creano situazioni per cui alcuni, i cosiddetti professionisti della partecipazione, vanno a tutte le assemblee pretendendo di parlare a nome di tutti, pur non avendo alcun mandato. Insomma i tentativi di far partecipare i cittadini alla vita pubblica con questi strumenti spesso si arenano su queste ed altre difficoltà. Il modello dei patti di collaborazione proposto da Labsus è invece molto semplice, perché cittadini e amministrazione comunale si incontrano non per decidere sulla localizzazione di un’opera pubblica, ma su come soddisfare insieme un bisogno collettivo: la sistemazione di una piazzetta, le pareti di una scuola da ridipingere, un’area verde piena di rifiuti da ripulire e trasformare in un parchetto, un rudere da recuperare per farne un luogo attraente e utile. Tutte cose estremamente concrete e facilmente realizzabili. Nella realizzazione dei patti di collaborazione c’è sempre una prima fase di progettazione, che diventa di fatto una co-progettazione, in cui i cittadini imparano a confrontarsi fra loro, ad organizzare una riunione, predisporre un ordine del giorno, discutere insieme.... insomma i patti sono una piccola scuola di democrazia. Dopo di che viene stipulato con l’amministrazione comunale un patto con precise assunzioni di responsabilità sia da parte dell’amministrazione, sia dei cittadini, con tempi di realizzazione, assunzione di oneri, dettaglio di spesa, il tutto in piena trasparenza, perché tutti devono poter conoscere come si interviene su quelli che sono beni pubblici, cioè di tutti».
Da cittadino coinvolto nei processi decisionali della PA a cittadino “custode attivo” (come lei lo definisce), alleato dell’amministrazione locale, in grado di produrre effetti vantaggiosi nella trasformazione della comunità, nel miglioramento dei servizi alle persone, nella cura dell’habitat, nella costruzione di socialità e finanche sotto il profilo economico. Un ruolo ed una funzione del tutto nuovi e innovativi. È così?
«È così, certamente. È un ruolo del tutto nuovo, di una concretezza estrema, perché i cittadini attivi sono anche molto operativi, non si limitano a discutere ma incidono sulla realtà prendendosi cura dei beni comuni. Ed è un ruolo ad alta densità di relazioni umane, in cui la cura dei beni comuni diventa al tempo stesso cura dei rapporti fra le persone, spesso persone sole, che grazie ai patti socializzano tra loro. In questo periodo terribile della pandemia noi di Labsus abbiamo visto che c’è anche un effetto terapeutico dei patti, da non sottovalutare: le persone si aggregano per fare qualcosa di utile per la collettività ed al tempo stesso fanno qualcosa di utile per sé stessi, stanno meglio, si sentono utili, si divertono. Un altro aspetto positivo dei patti di collaborazione è la centralità che essi attribuiscono ai cittadini ed alla loro iniziativa, perché il principio di sussidiarietà sancito dalla Costituzione all’art. 118, ultimo comma dispone che la Repubblica deve favorire le autonome iniziative dei cittadini, ma se questi ultimi non si attivano, la Repubblica non ha niente da favorire. Quindi i cittadini diventano protagonisti della realizzazione di un principio costituzionale! A Siena da anni è in vigore un patto per la cura delle antiche mura cittadine. Una volta un “Pattista”, così chiamiamo i cittadini che aderiscono ai patti, mi disse “A noi il patto dà dignità. Quando parliamo con il Rettore dell’Università di Siena per la cura delle mura noi ci sentiamo sullo stesso piano”. Ecco, il valore della dignità riconosciuto dai patti ai cittadini è straordinario».
Ci si chiede: perché dovrebbero essere i genitori a ridipingere le pareti della scuola, quando ci sono dei dipendenti pubblici pagati per farlo.
«È un’osservazione giusta, chi paga le tasse ha diritto di pretendere in cambio dei servizi efficienti. Però poi ci sono tante persone, secondo le nostre stime oscillano tra gli 800mila e il milione, che per vari motivi vogliono prendersi cura dei beni comuni e vanno aiutate creando strumenti idonei ad agevolarli, come appunto sono i patti di collaborazione. I cittadini attivi sono volontari che, anziché prendersi cura delle persone in difficoltà, come i volontari tradizionali, si prendono cura dei beni di tutti per migliorare oltre alla propria vita, anche quella di tutti gli altri. E così facendo producono degli effetti benefici che sono ancora più importanti degli effetti materiali. Per esempio, spesso gli insegnanti ci dicono che le pareti delle aule scolastiche dipinte dai genitori o dagli studenti restano pulite più a lungo. Evidentemente la cura condivisa del “bene comune scuola” ha un effetto educativo sugli studenti, che evitano di danneggiarlo».
Ecco perché il concetto di cura non va confuso con quello di manutenzione.
«Esattamente. È il ragionamento che noi di Labsus portiamo avanti da sempre. I giardinieri comunali fanno manutenzione, i cittadini si prendono cura. I gesti che fanno i giardinieri ed i cittadini attivi magari sono gli stessi, ma è la qualità dei rapporti fra le persone che cambia tutto. La cura dei beni produce effetti anche nelle persone, che così escono di casa, si incontrano, si divertono e magari poi alla fine del lavoro di cura del bene stanno insieme allegramente mangiando qualcosa, perché il cibo per noi italiani è importante... A chi ci dice che in fondo si tratta semplicemente di cittadini che curano le aiuole, noi rispondiamo che le aiuole curate è quello che si vede, poi c’è quello che i patti producono e che non si vede, cioè l’aumento della coesione sociale e del senso di appartenenza, l’integrazione degli stranieri che partecipano alla cura dei beni comuni, la produzione di capitale sociale, l’aiuto ad uscire dalla solitudine... e sappiamo quanto purtroppo sia aumentata la solitudine di milioni di persone durante la pandemia. E poi attraverso la realizzazione dei patti si crea un clima migliore nel quartiere, un senso di fiducia reciproca fra le persone e fra queste ultime e l’amministrazione comunale. La cura dei beni comuni non è un’attività politicamente etichettabile come di destra o di sinistra, ma non è politicamente neutrale. Una società fondata sulla cura dei beni comuni e quindi sulla fiducia reciproca è infatti ben diversa da una società fondata sulla paura, sul sospetto, sulla diffidenza».
Alla base del suo ragionamento vi è il passaggio da bene pubblico a bene comune. Un passaggio peraltro giuridicamente ancora non codificato e comunque per molti non di immediata comprensione. Eppure forse rappresenta il salto culturale più importante che andrebbe fatto oggi. Ci aiuta a renderlo più semplice?
«I beni privati sono miei, mi appartengono, i beni pubblici in teoria appartengono a tutti, ma in realtà in Italia non sono percepiti come “nostri”, bensì “di nessuno”, con il risultato che spesso sono saccheggiati per fini privati. I cittadini attivi si prendono cura con passione, competenza ed attenzione dei beni di tutti (quelli che per molti italiani sono beni “di nessuno”) come se fossero i propri, pur sapendo ovviamente che non potranno mai impadronirsene. Essi, che non ne sono e non ne saranno mai proprietari, si assumono nei confronti dei beni comuni la stessa responsabilità che si assume il proprietario, cioè il comune. È questa condivisione di responsabilità nei confronti di un bene pubblico che lo trasforma in un bene “comune”, che noi sentiamo come “nostro”. L’esempio più chiaro in questo senso è in una scuola di Roma, nel quartiere Esquilino (ma ormai esempi di scuole aperte e condivise ce ne sono a decine in tutta Italia). Da anni l’associazione genitori organizza il pomeriggio in quella scuola attività di ogni genere, corsi di lingue straniere, musica, eccetera. Ebbene, quella scuola dalle 8 alle 16 è un bene pubblico, dalle 16 alle 22 si trasforma in un bene comune».
Anche un bene privato può diventare bene comune?
«Accade di rado, ma può accadere. A Capannori, in provincia di Lucca, una società privata ha acquistato una villa con un grande parco e poi lo ha aperto al pubblico grazie ad un patto con l’amministrazione pubblica e un’associazione di cittadini. Insieme curano il parco e insieme lo usano. Quel parco è un bene privato che grazie al patto di collaborazione diventa un bene comune. Immobili vuoti e abbandonati in Italia ce ne sono milioni, in alcuni casi sono solo da abbattere, in molti casi invece sono edifici architettonicamente significativi, che grazie ai patti di collaborazione potrebbero essere recuperati e magari generare sviluppo e lavoro svolgendo al loro interno attività che rendano la loro gestione economicamente sostenibile».
Lo strumento dei patti sottintende un altro modo di essere cittadini, ma anche un altro modo di essere amministratori pubblici. Come si fa a creare consapevolezza nelle amministrazioni, cioè a spingere i comuni a credere in questi strumenti?
«Abbiamo notato che quasi sempre c’è grande disponibilità da parte degli amministratori eletti, che si assumono grandi responsabilità con risorse sempre più scarse e capiscono perfettamente l’utilità di uno strumento del genere. Le complicazioni nascono invece con i funzionari e i dirigenti, che essendo sottoposti ad un sistema di controlli molto stringenti da parte di molti organi di controllo diversi sono comprensibilmente impauriti dall’assunzione di responsabilità che inevitabilmente deriva da un modello amministrativo per loro nuovo e sconosciuto».
Come superare i “Si è sempre fatto così” e i “Non si può fare” che smontano gran parte delle iniziative di innovazione nelle pubbliche amministrazioni?
«Le soluzioni che si sono rivelate efficaci finora sono in genere di due tipi. La prima è cercare di convincere il sindaco o l’assessore del comune che ha adottato il nostro Regolamento a stipulare i primi patti, per esempio per la cura del verde o di uno spazio pubblico. Quando anche i dirigenti ed i funzionari si accorgono che i patti funzionano, sono semplici da usare, efficaci e che non comportano per loro responsabilità aggiuntive, la diffidenza si trasforma spesso in convinta adesione al nuovo modello di amministrazione condivisa. Un’altra possibilità è quella di far incontrare i dirigenti ed i funzionari che sono restii ad usare i patti con loro colleghi di altri comuni che invece stanno utilizzando con successo i patti di collaborazione. Si è visto che in genere la testimonianza positiva dei colleghi è sufficiente a superare le perplessità, soprattutto quando risulta chiaro che non si rischiano responsabilità aggiuntive».
Quali “armi” hanno i cittadini per monitorare e assicurarsi che l’amministrazione persegua i progetti condivisi? Esistono strumenti specifici, che vanno al di là della generale “responsabilità politica” degli eletti?
«L’articolo 5 del Regolamento, quello che disciplina i patti di collaborazione, prevede molteplici modalità di azione e strumenti per il monitoraggio, la rendicontazione e la misurazione dei risultati. Fra gli altri strumenti c’è una App che si chiama Oppidoo, sviluppata a Pistoia, facilissima da usare, che consente di co-progettare un patto e poi di seguirne l’iter dall’inizio alla fine. In generale, il miglior strumento di controllo è la trasparenza. Tutti devono poter seguire il percorso di un patto, compresi ovviamente i cittadini che non vi partecipano ma hanno diritto di seguirne l’attuazione, perché il bene oggetto del patto resta comunque pubblico e dunque di tutti. Inoltre la totale trasparenza dei patti di collaborazione elimina ogni possibilità di corruzione o di uso improprio degli strumenti dell’amministrazione condivisa. E questo è un altro vantaggio importante di questo modello di amministrazione rispetto a quello tradizionale».
Molti ritengono che la risposta che si darà alla crisi pandemica è la grande occasione per mobilitare il Paese e fornire un’idea diversa di società e di città, dove alle parole chiave “produzione” e “consumo” andranno affiancate con forza quelle di “prossimità”, “cura”, “innovazione”, “cooperazione”, “cittadinanza”. È una lettura della società che contrasta quella purtroppo crescente fondata invece su paura, incertezza, sfiducia nel prossimo e sostanziale chiusura. Anche per riappropriarsi di alcuni termini come “decoro” o “sicurezza” che ora paiono prerogativa della seconda. Che ne dice?
«Al posto di “decoro” dovremmo parlare di “bellezza” e quindi dire che i cittadini attivi si prendono cura non del “decoro”, bensì della bellezza delle nostre città. Non è un caso del resto se il mio ultimo libro si intitola appunto I custodi della bellezza! E per quanto riguarda la “sicurezza”, la sicurezza migliore in un parco, per esempio, è data non dal presidio di guardie armate, ma dall’essere un parco ben tenuto, frequentato da una molteplicità di utenti e quindi sicuro grazie alla presenza di tante persone. Ma, per tornare al modo con cui usciremo dalla crisi provocata dalla pandemia, il mio sogno è un Paese che si prende cura dei propri beni comuni e quindi di se stesso, un Paese in cui il tema della cura diventa centrale, perché di fatto già lo è nella vita delle nostre comunità. Ci sono infatti in primo luogo le attività di cura in ambito famigliare (peraltro quasi del tutto caricate sulle spalle delle donne) senza le quali il mondo si fermerebbe. Poi c’è tutto il mondo del volontariato, composto da persone straordinarie, che si prendono cura di persone in difficoltà anche se non fanno parte della loro cerchia famigliare. Infine ci sono le persone di cui abbiamo parlato finora, i cittadini che si prendono cura dei beni di tutti, per vivere meglio loro, ma facendo vivere meglio tutti. Tutti questi ambiti di intervento sono fondati sul concetto di cura. Purtroppo viviamo in una società in cui si ritiene che la gentilezza, che è una delle componenti del prendersi cura, fa rima con debolezza, in cui il confronto politico è deformato dall’uso dei social media, che distorcono sistematicamente opinioni e notizie, in cui candidarsi a ricoprire un ruolo pubblico significa esporsi ad attacchi anche sul piano personale. Ma per fortuna non c’è solo questo. C’è anche l’altra Italia, quella della cura in ambito famigliare, dei volontari, dei cittadini attivi, composta da centinaia di migliaia di persone che fanno del “prendersi cura” il centro della propria vita. Su questi bisogna fare affidamento per una ripresa del nostro Paese che anziché fare leva unicamente su parole chiave come “produzione” e “consumo”, faccia leva sulla “prossimità”, la “cura”, la “cooperazione” e la “cittadinanza”».
Gregorio Arena è stato professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università di Trento dal 1985 al 2015. È Presidente Emerito di Labsus, il Laboratorio per la sussidiarietà, che ha fondato nel 2005 e di cui è stato Presidente fino al 2021. Fra le pubblicazioni degli ultimi anni si segnalano, oltre a numerosi saggi in riviste giuridiche e agli editoriali in www.labsus.org le seguenti monografie: I CUSTODI DELLA BELLEZZA (Prendersi cura dei beni comuni. Un patto per l’Italia fra cittadini e istituzioni), 2020, Milano, Touring Club Editore; Per governare insieme: Il federalismo come metodo di governo (Verso nuove forme della democrazia), Cedam, 2011 a cura di, con Fulvio Cortese); Il valore aggiunto (Come la sussidiarietà può salvare l’Italia), Carocci, 2010 (a cura di, con Giuseppe Cotturri); Cittadini attivi (Un altro modo di pensare all’Italia), Laterza, 2006 (2011, 2° ed.).
Questo articolo è contenuto in A: numero 1 / dicembre 2021 – Foto: Francesca Tilio
La grande sfida: coinvolgere la comunità nella trasformazione della città
Il presidente di Action Aid Davide Agazzi è uno dei massimi esperti italiani di innovazione e imprenditoria sociale. Abbiamo parlato con lui delle sfide che attendono le città dopo la pandemia, e delle potenzialità dei centri di medie dimensioni
Davide Agazzi è uno dei massimi esperti italiani di innovazione e imprenditoria sociale, molto attento ai percorsi di sviluppo territoriale e alle forme di collaborazione tra soggetti pubblici e privati. Ha ricoperto incarichi in una metropoli come Milano ma in questi ultimi due anni è stato anche protagonista di un laboratorio di innovazione urbana a Brindisi che ha destato attenzione e apprezzamento tra chi segue questi processi.
Quest’estate Agazzi è stato ospite ad Ancona di Orbite Fest, l’evento conclusivo di un progetto volto alla sperimentazione di nuovi modelli di aggregazione giovanile e alla valorizzazione di spazi rigenerati. In quell’occasione lo abbiamo conosciuto e lui molto generosamente ci ha dato disponibilità a ritrovarci per una intervista. Ed eccoci dunque a parlare dei temi di cui Davide Agazzi si occupa da sempre e che sono al centro del nostro approfondimento. Cominciamo proprio chiedendogli se secondo lui una città di medie dimensioni come Ancona, che ha molti tratti di somiglianza con Brindisi, può essere terreno fertile di sperimentazioni in questo campo.
«L’ultimo anno e mezzo -risponde- ci ha portato a rimettere in discussione tanti aspetti delle nostre vite che davamo per scontati. Dalla qualità delle nostre relazioni agli spazi delle nostre case, passando per le modalità con cui svolgiamo quotidianamente i nostri lavori. Ci siamo trovati a domandarci, forse per la prima volta dopo un decennio di torpore, chi volevamo incontrare e perché. Il Covid ci ha sbattuto in faccia vecchie e nuove esigenze. E ci ha fatto guardare diversamente alle città in cui viviamo. Quelle grandi hanno mostrato tutto il loro lato disumano e tutti i loro limiti, rispetto alla qualità degli spazi pubblici e privati, soprattutto per chi ha meno. Quelle medie hanno riscoperto di avere ancora qualche cartuccia da sparare, in una competizione sfrenata tra territori in cui fino a pochi mesi fa sembravano destinate a soccombere. Il concetto della “città dei 15 minuti” che va ora molto di moda ed è visto come una panacea per tutti i mali a mio modo di vedere significa prevalentemente una cosa: che le grandi città hanno capito che per essere competitive devono essere più umane. Non è detto che ce la facciano però. Al contempo, le città medie e piccole si devono chiedere cosa vuol dire essere “più città”, come fare ad agganciarsi a quelle dinamiche che le collegano di più ai grandi flussi di conoscenze e capitali. Si apre così ora una partita tutta nuova, che ruota principalmente attorno ad una questione: il lavoro. È sempre questa, se ci pensiamo, la forza chiave che ha guidato la trasformazione dei nostri territori. L'industrializzazione si è portata dietro le fabbriche e le periferie urbane, l’economia della conoscenza ha premiato la densità delle grandi città metropolitane. Cosa succederà oggi, grazie
alle tecnologie digitali che ci consentono di lavorare in modalità sempre più slegate dalla necessità di stare fisicamente in uno stesso luogo nello stesso momento, per collaborare? Passa da qui anche lo scontro tra grandi aree metropolitane e città medie. Il fatto che l’Europa abbia costruito la sua fortuna proprio su queste ultime ci può far ben sperare. Ma la partita è tutta da giocare. Ed i terreni fertili di sperimentazione si riveleranno tali solo se ci saranno abbastanza sperimentatori».
Molti spazi pubblici hanno perso nel tempo le loro funzioni e oggi sono al centro di progetti di rigenerazione e rifunzionalizzazione con risorse significative che lo Stato assegna ai comuni. Il coinvolgimento delle comunità interessate da questi processi è come sappiamo molto importante. Com’è possibile rendere effettiva ed efficace la partecipazione e l’ingaggio dei cittadini evitando, come spesso accade, azioni meramente di facciata utili solo ad infiocchettare idee preconfezionate? E, nelle diverse fasi dell’intervento di rigenerazione urbana, in quali tempi la partecipazione dovrebbe essere attivata e che cosa ci si dovrebbe aspettare dai processi di coinvolgimento civico?
«Il coinvolgimento delle comunità è essenziale per rendere qualsiasi progetto di rigenerazione un potenziale innesco per un processo di trasformazione urbana. Altrimenti stiamo parlando solo di meri appalti per opere pubbliche, piccole o grandi che siano. Che sono importanti, in un momento in cui questi settori sono in sofferenza, ma non determinano discontinuità significative. Quello di cui abbiamo bisogno invece è che questa nuova ondata di investimenti sia da stimolo per nuove progettualità a livello urbano. Il tema quindi non è solo coinvolgere la cittadinanza, la società civile e le forze sociali ed economiche nei processi decisionali. La vera sfida è coinvolgere tutti nella realizzazione di progetti che siano il più possibile innovativi. E, badate bene, anche in questo caso, non si tratta di una concessione, ma di una nuova necessità. Perché i progetti di rigenerazione comprendono mix di funzioni nuove, forme di interazione con pubblici differenti, necessità di trasformare porzioni di territori in luoghi di vita e di lavoro. E questo possono farlo solo realtà capaci di abitare ed interpretare questi spazi in maniera contemporanea, trasformandoli in magneti per nuovi percorsi di sviluppo. Per cui, la partecipazione non va solo intesa in fase consultiva, nel momento in cui si prendono decisioni sulle destinazioni d’uso. Ma va contemplata e praticata anche e soprattutto in fase di implementazione e di gestione di spazi ibridi, per fare in modo che gli investimenti che si riverseranno sui nostri territori possano trasformarsi in occasioni di generazione di valore pubblico, associando sempre più energie attorno a nuove visioni di città».
Concordi con coloro che sostengono che enormi vantaggi possono derivare dalla componente digitale che, anziché spingere verso l’individualizzazione delle persone e la loro chiusura nel privato, può invece -se governata e indirizzata- favorire quella prossimità relazionale e funzionale tra le persone che è alla base della nuova visione della città?
«Il digitale è una brutta bestia. Perché moltiplica le nostre capacità e opportunità e ci rende la vita più semplice. Ma si porta dietro tante nuove insidie di cui spesso diventiamo consapevoli solo troppo tardi. È uno di quei terreni in cui la realtà delle cose è molto più avanti della nostra capacità di comprenderle e regolarle. Le tecnologie digitali di per sé non fanno altro che aiutarci ad assecondare i nostri desideri. E tra questi c’è sicuramente quello di incontrare altre persone. Non è certo responsabilità delle nuove tecnologie se le nostre società si sono atomizzate, se le nostre famiglie si sono rimpicciolite e se a volte viviamo in palazzi o vie in cui non conosciamo i nomi e le storie dei nostri vicini. Anzi, dobbiamo riconoscere che, proprio in questo contesto, alcune app ci aiutano a ricostruire dei legami inediti, su basi diverse. E che quando il pubblico decide di investire fortemente in questa direzione, dotandosi di strumenti di partecipazione e democrazia deliberativa, si scopre una grande voglia di contribuire alla vita pubblica che evidentemente era rimasta inespressa. Pensate solo al successo che hanno avuto le più recenti campagne referendarie grazie alla possibilità di sostenerle con una firma digitale. Poi però dobbiamo avere anche il coraggio di parlare degli aspetti più inquietanti di questo mondo, che non hanno solo risvolti psicologici e sociali (isolamento, nuove dipendenze, nuove forme di abuso), ma che hanno a che vedere con le forme dell’economia e della società (nuovi monopoli di fatto, nuove forme di controllo sociale, violazioni della privacy, nuove forme di sfruttamento del lavoro). È un tema che merita tutta la nostra attenzione e nuove forme di investimento in educazione, a partire dalla scuola primaria. Perché i nostri figli già oggi stanno crescendo in un mondo che ormai ha pochissimo a che vedere con quello che conosciamo».
Le esperienze di coinvolgimento dei cittadini nei percorsi di rigenerazione di spazi pubblici/privati o di riorganizzazione di alcuni servizi e reti di prossimità vengono spesso viste come bei propositi che durano però solo il tempo del progetto e i cui effetti svaniscono nel medio termine. Che ne pensi? Ci sono pratiche che ci dimostrano il contrario?
«La cosa da mettere a fuoco è che il coinvolgimento in termini di partecipazione a processi di consultazione non basta più. Quella parte di società capace di esprimere, anche in potenza, maggiori interessi e competenze, non si accontenta più di essere consultata, ma chiede il potere di co-decidere e chiede di essere coinvolta nella realizzazione dei progetti più significativi. E si comporta così perché si rende conto, consapevolmente o meno, di essere un ingrediente essenziale per la buona riuscita di un progetto. Per come si sono messe le cose, questo, dal mio punto di vista, è senz’altro vero. Per cui chiunque voglia gestire un processo di trasformazione urbana capace di produrre occasioni di sviluppo a livello territoriale deve porsi il problema di come gestire processi di attivazione e partecipazione lungo tutto il ciclo di vita di un processo, dalla fase di ideazione e progettazione di un determinato luogo fino alla sua gestione operativa, avendo cura di mantenere alta una certa tensione vitale anche durante l’apertura dei cantieri di realizzazione. Le esperienze più mature in questo senso vengono dalla Francia. Parigi ha sperimentato, attraverso i bandi di “Reinventing Cities”, poi ripresi dalle principali città del mondo attraverso il network C40, modalità di sollecitazione di interessi privati molto efficaci. Attorno alle aree dismesse da riqualificare non ci si limita a promuovere manifestazioni di interesse o concorsi di idee. Piuttosto viene strutturata una procedura a più fasi in cui si chiede a chi partecipa di costruire delle cordate che sin dall’inizio tengano insieme finanziatori, progettisti, architetti, realtà del territorio e soggetti che si candidano a gestire le principali funzioni inserite in una ipotesi di rigenerazione. I bandi poi prevedono esplicitamente criteri di valutazione orientati alla qualità ambientale e sociale, e premiano chi propone utilizzi temporanei delle aree oggetto di trasformazione, nelle fasi che precedono e accompagnano i quartieri. In questo modo si stimola una competizione al rialzo, che privilegia creatività e capacità di creare alleanze territoriali».
I progetti di rigenerazione di spazi pubblici e/o privati, che ne ridefiniscono funzioni, valore e senso, in molti casi assegnano agli stessi nuove finalità di tipo culturale, sociale o anche turistico. Ciò è in linea con una visione che riconosce a questi settori un valore prioritario nella costruzione della comunità e del tessuto sociale. Ritieni che possano essere settori fertili anche sotto il profilo economico ed occupazionale? C’è un circolo virtuoso che lega questi settori alla competitività delle città, alla loro capacità attrattiva e dunque al loro sviluppo economico?
«Si tratta di funzioni essenziali in questa fase storica, in cui il mantra condiviso sta diventando, almeno a parole, quello della prossimità e della qualità della vita. Funzioni che rientrano a pieno titolo, insieme a scuole, biblioteche e presidi socio sanitari, all’interno del più ampio concetto di “infrastruttura sociale”, che abbiamo capito essere una componente fondamentale della tenuta sociale ed economica delle città. Le infrastrutture sociali, contribuendo a rispondere ai bisogni di base di un territorio, contribuiscono a sostenere una parte di economia per sua natura radicata a livello locale, costituendo allo stesso tempo sia elementi di equità, attrattività e competitività, che anche bacini occupazionali in espansione. Dobbiamo però fare attenzione ad un aspetto che ad oggi non è ancora pienamente messo a fuoco. Il nostro obiettivo, come pianificatori di percorsi di sviluppo, dovrebbe essere quello di promuovere diversità e vitalità a livello economico e sociale. Non possiamo pensare di passare da una monocultura all’altra, di sostituire un modello di economia industriale con uno basato esclusivamente su turismo e cultura. Abbiamo già visto che così non funziona. Dobbiamo invece avere l’ambizione di far crescere un settore accanto all’altro, rendendoli più sostenibili e capaci di produrre valore condiviso, completando idealmente una nuova matrice produttiva molto più complessa e articolata. C’è bisogno del contributo di tutte e tutti per affrontare le sfide che il XXI secolo ci pone».
Davide Agazzi ha 40 anni, una laurea specialistica in Analisi e Politiche dello Sviluppo Locale e Regionale presso l’Università degli Studi di Firenze, e una laurea triennale in Relazioni Pubbliche e Pubblicità presso l’Università IULM di Milano. È esperto di sviluppo locale, innovazione sociale e processi di rigenerazione urbana. È il co-fondatore di From, partner strategico e creativo per la trasformazione urbana. Attualmente è presidente di ActionAid Italia, organizzazione che si batte contro la povertà e l’ingiustizia nel mondo. È tra i fondatori del Comitato “Ti Candido - il potere della democrazia” che si impegna a ridurre le barriere all’ingresso del mondo politico. Ha ricoperto incarichi di responsabilità in società di consulenza, think tank, associazioni ed amministrazioni locali.
Questo articolo è contenuto in A: numero 1 / dicembre 2021 – Foto: Francesca Tilio
Il tempo della riappropriazione
È in corso un vivace processo di ripensamento del paradigma urbano che costringe le città a scegliere a cosa voler assomigliare e a quale immaginario tendere nel prossimo futuro
A scala umana, della prossimità, dei quindici minuti. Policentrica, flessibile, circolare, resiliente: il dibattito contemporaneo su come saranno le città e i territori dopo il Covid-19 pullula di ipotesi e definizioni nuove, a testimonianza che la città - data per spacciata durante la pandemia - è tutt’altro che morta. Al contrario, è in corso un vivace processo di ripensamento del paradigma urbano che costringe le città a scegliere a cosa voler assomigliare e a quale immaginario tendere nel prossimo futuro. Per alcune si tratta di una scelta naturale, l’esito di percorsi civici, politici e amministrativi che vanno avanti da anni (pensiamo a Milano, Bologna, Palermo). Per altre, dalla ridotta densità (intesa non solo in termini di popolazione, ma soprattutto di opportunità di lavoro e attività) e/o dalla vocazione meno nitida, la sfida è più faticosa e tutt’altro che banale. Come raccoglierla dunque? Sembra emergere con forza una parola d’ordine, su tutte: “riappropriazione”. In senso figurato, del tempo e delle relazioni, per una città della prossimità. Ma anche tangibile e concreto: riappropriazione di quartieri, aree dismesse, strade e piazze da parte degli abitanti. Che da Nord a Sud chiedono di poter partecipare a scelte e processi urbani, in un rinnovato “corpo a corpo” con i luoghi della loro quotidianità. Si aprono così scenari nuovi, che diventano l’occasione per dare concretezza alle politiche place-based anche in città di piccole e medie dimensioni. Rispetto a questi scenari dove si colloca Ancona? Dopo qualche decennio di torpore e disinteresse generalizzati dei cittadini verso le dinamiche urbane, negli ultimi anni la città ha conosciuto un progressivo risveglio, concretizzatosi in progettualità che sono state in grado di intercettare il rinnovato desiderio di protagonismo civico e dare nuova linfa ai quartieri: esperienze come Arcopolis agli Archi, Palombellissima alla Palombella, Direzione Parco a Vallemiano sono solo alcuni - ma significativi - esempi, curati dall’associazionismo locale (tradizionalmente molto diffuso ad Ancona), spesso senza alcun sostegno da parte dell’Amministrazione locale - quanto meno nelle loro fasi iniziali. Quest’ultimo aspetto non sorprende: l’Amministrazione condivisa, basata sugli istituti della co-programmazione e della co-progettazione, è un orizzonte da noi ancora distante e dunque progettualità come quelle succitate sono di fatto lasciate completamente in mano al terzo settore e alla sua capacità di intercettare risorse ad altri livelli (crowdfunding, risorse statali o private). Tutto ciò testimonia uno scarso interesse verso i processi di rigenerazione urbana come azione strategica, una scarsa consapevolezza circa le potenzialità delle dinamiche di riappropriazione sopra citate e un disallineamento con la parte più viva e competente della comunità che, come ci ricorda Davide Agazzi nel suo contributo, «non si accontenta più di essere consultata, ma chiede il potere di co-decidere e chiede di essere coinvolta nella realizzazione dei progetti più significativi. E si comporta così perché si rende conto, consapevolmente o meno, di essere un ingrediente essenziale per la buona riuscita di un progetto». L’assenza dell’Amministrazione locale dietro agli interventi di riattivazione di comunità di maggior successo ad Ancona, così come l’insufficiente attenzione rivolta alla co-progettazione con i gruppi sociali ed economici, rappresenta una forte criticità che si ripercuote sulla capacità della città di affrontare con successo le sfide delle trasformazioni urbane. Ecco perché ad Ancona si avverte l’esigenza di “infrastrutture di cittadinanza”, luoghi dove connettere bisogni quotidiani, aspirazioni collettive e comunità. Dove coltivare e potenziare la cittadinanza attiva, luoghi a cui ci si riferisce anche come “nuovi centri culturali”: una definizione ampia che comprende e accomuna spazi anche molto eterogenei, spesso frutto di percorsi di rigenerazione urbana che vedono la Pubblica Amministrazione implementare formule innovative di gestione, accanto al privato e alla cittadinanza attiva. Un’esigenza, seppur generalizzata e diffusa, che non sempre si concretizza in pratiche; spesso sono necessari interventi “dall’alto” per sbloccare il potenziale di un territorio, come testimoniano buone pratiche tra cui quella di Palazzo Guerrieri a Brindisi. Ecco allora un ulteriore terreno di sperimentazione e innovazione che può far leva sui vuoti urbani presenti ad Ancona, intercettando risorse anche dal PNRR, programma che dedica ampio margine, di spesa e manovra, agli interventi di rigenerazione sui territori. La scommessa è aperta. Ci sono oggi le condizioni per recuperare il campo perduto e per invertire la rotta. Le risorse economiche non mancheranno. Servirà il coraggio di usare metodi e pratiche diversi da quelli sin qui praticati e di gestire i processi di trasformazione urbana puntando su competenze, attivazione e partecipazione della comunità e innovazione sociale.
Questo articolo è contenuto in A: numero 1 / dicembre 2021 – Foto: Francesca Tilio
Le idee e la città
L’idea è ricercare una complessità che il dibattito politico ha perso da diversi anni. La cosa è tanto più significativa alla scala del locale, diventato una specie di parolaccia nel mondo globalizzato.
Negli anni Sessanta/Settanta del secolo passato, quelli del boom delle riviste militanti tipo i “Quaderni Piacentini” (ai ventenni sembrerà un titolo contemporaneo al “Monitore Cisalpino”), le riviste si facevano per creare un paradigma interpretativo, un modello di pensiero. La modalità era “tattica”, l’obiettivo interno. I lettori erano solo gli spettatori di un confronto tra intellettuali.
Combattendo con fastidiose bestioline che uscivano da tutte le parti, mi sono andato a prendere sugli scaffali alti della mia biblioteca questo genere di riviste e mi sono stupito di quanto potessero permettersi di essere complesse e spesso illeggibili.
Poi ci sono state le riviste culturali che avevano un pubblico, tipo “Alfabeta”, per citarne una, sorta di “luogo comune” e di incontro tra redattori e lettori dovuto alle ideologie. Un pubblico che nel frattempo affollava i dibattiti, le presentazioni dei libri, i teatri. Un mondo piuttosto omogeno per tipologia, modo di vestire, gusti. Quello della famosa “egemonia della Sinistra”, buonanima. Ma dietro questi strumenti operavano anche istituzioni, centri culturali, università militanti dalle quali i temi delle riviste esondavano creando un dialogo tra ricerca, cultura e politica. Erano gli anni in cui certi enti locali addirittura si sostituivano alle istituzioni di ricerca sostenendo i costi di indagini, studi, ecc. (oggi, a parte l’assenza delle risorse, verrebbero probabilmente multati dalla Corte dei Conti).
Quel mondo non c’è più, finito in soffitta come i miei pesciolini e le Clarks marrone consumate che eravamo costretti a portare tutti nonostante facessero fare pericolosissimi scivoloni sul bagnato.
Questa rivista non potrà avvalersi di quel retroterra e dovrà fare da sola, specie in un luogo certo difficile come Ancona, ma che ha già dato prova di smentire superficiali pessimismi. Facendo di necessità virtù, essa prova dunque a inaugurare uno scenario nuovo. Non so ancora se proprio 4.0 nel senso diffuso, ma comunque muovendosi in modo diverso nello scenario liquido della società contemporanea.
L’idea è ricercare una complessità che il dibattito politico ha perso da diversi anni, senza però rifare i collettivi chiusi; tentare un dialogo tra ricerca e politica che anche l’Università sembra aver perso. In giro, fatte le dovute eccezioni, si vedono titoli per lo più a scopo di carriera sempre più scialbi e pallidi, privati di idee originali per poter essere meglio accolti nelle maglie della nuova ricerca scientifica neoliberale, fatta di ricercatori che assomigliano sempre di più a dei frati.
Ma la sfida è anche più ambiziosa. Il nodo di A non sta infatti tanto nel laconico titolo, che lascia ampio margine alla fantasia, ma nei due punti: vi è sottesa una domanda impegnativa: adesso che vogliamo fare? La cosa è tanto più significativa alla scala del locale, diventato una specie di parolaccia nel mondo globalizzato. I due punti potrebbero allora stare per un dinamismo che si vorrebbe creare tra il fuori e il dentro, tra la città e la regione, tra il centro urbano e le frazioni, tra ricercatori e politica, tra chi collaborerà con dei testi e i lettori. Un dialogo che usa la carta per temi complessi ed altri mezzi per un altro genere di discussioni. 4.0 in questo senso. La rivista infatti non sarà solo queste pagine, ma anche un sito web, una newsletter, occasioni di incontri non secondari su quanto c’è di scritto, che daranno poi origine ad altri testi e via di seguito, secondo un modello circolare (questa espressione alla moda mi è sfuggita, scusate).
Questa è l’intenzione. Però il risultato dipenderà anche da chi, appunto, sta dall’altra parte. Se resteremo di qua dei due punti non sarà solo colpa della redazione; per cui datevi una mossa anche voi. Forse come editoriale del primo numero è un po’ aggressivo, ma i Social ci hanno abituato alle cagnare e ci tocca anche competere un po’ con i toni degli altri mezzi di comunicazione.
Questo editoriale è contenuto in A: numero 1 / dicembre 2021 - Illustrazione: Costanza Starrabba
Una riflessione in movimento sulla nostra città
Il difficile momento richiede una città capace di coinvolgere, rendere protagonisti e responsabilizzare le migliori energie presenti sul campo dell’innovazione sociale. Realtà e competenze spesso giovani, preparate e appassionate, che in parte si sono già fatte carico, sotto traccia, di alcune trasformazioni in atto, che amano il luogo dove vivono e sono pronte a mettersi in gioco.
Vogliamo riflettere, prendendoci tutto il tempo che richiede ogni buona riflessione, sulla città di Ancona. Senza timore della complessità, né tanto meno sentendoci portatori di verità. Sullo sfondo, oltre alla questione ecologica, l’impatto dirompente che la pandemia ha avuto ed avrà sul futuro dei centri urbani, sugli stili di vita, sulle abitudini e le priorità dei cittadini. Un impatto ad oggi ancora non immaginabile nella sua interezza, ma di cui si intravede la portata nel modo in cui ci spostiamo, ci incontriamo, abitiamo, lavoriamo e, infine, ci relazioniamo con la pubblica amministrazione.
Quattro i temi principali di A: La città che cura, La città che si rigenera, La città che partecipa, La città che respira. Traducono indirizzi, scelte, desideri e visione, riguardano la collettività e l’arte del governo della cosa pubblica. In questo numero ci occupiamo di rigenerazione urbana e di amministrazione condivisa sul modello dei patti di collaborazione; gli altri temi troveranno spazio nei prossimi. Alcune rubriche dedicate alla nostra città completano la lettura: La passeggiata, Ancona capoluogo, La storia del capitale sociale.
Altre ne scopriremo poi. Il disegno di A si completa con la Mappa dei tesori, una carta della città che verrà popolata man mano per rappresentare le organizzazioni ed i progetti di comunità presenti ad Ancona. Una traccia delle tante e preziose realtà e progetti che operano, spesso in modo spontaneo ed informale, a servizio della comunità o del proprio quartiere.
Ogni numero, infine - e per fortuna - sarà ingentilito e aggraziato dalle opere di un illustratore e di un fotografo. Siamo convinti che questo difficile momento richieda una città capace di coinvolgere, rendere protagonisti e responsabilizzare le migliori energie presenti sul campo dell’innovazione sociale. Aprire le porte agli agenti del cambiamento, agli organizzatori di comunità, ai mediatori sociali e alle reti solidali in grado di stabilire “un collegamento durevole e non episodico tra i luoghi dove si fa la società [.].. e quelli dove la si interpreta, .. possibilmente attingendo proprio da costoro per costruire una nuova leadership collettiva” (Cristina Tajani - Città prossime).
Realtà e competenze spesso giovani, preparate e appassionate, che in parte si sono già fatte carico, sotto traccia, di alcune trasformazioni in atto, che amano il luogo dove vivono e sono pronte a mettersi in gioco, ma che spesso vengono, incomprensibilmente e a torto, ritenute inadeguate o addirittura ostili.
Di una ulteriore convinzione ci facciamo portatori (e la crisi pandemica ce lo ha insegnato in modo chiaro): la società di servizi alle persone che conoscevamo va ridisegnata, sollecitando quelle risorse sociali disponibili in un’ottica di collaborazione e co-generazione. I cittadini non sono da considerarsi come clienti, portatori di bisogni cui dare una risposta, ma quanto più possibile protagonisti della soluzione dei problemi, in un contesto che li abilita e che è capace di cura e di prossimità.
A non è dunque solo una rivista. È un progetto culturale e politico, poiché si occupa di temi legati alla comunità dove viviamo.
Usare la carta è stata una scelta, ma A si svilupperà anche on line e promuoverà iniziative, incontri, momenti di condivisione e approfondimento. È un progetto del tutto aperto a nuovi stimoli, propositivo, senza pregiudizi né paracadute.
Non trovo ancora le parole per ringraziare i compagni di viaggio che hanno accettato di collaborare condividendo idee, suggerimenti e scelte. Un abbraccio particolare per questo primo numero va a Mara Polloni, Matteo Bilei e ai pilastri Matteo Belluti e Tommaso Sorichetti, nonché ai graditissimi ospiti Francesca Tilio, Costanza Starrabba, Davide Agazzi, Gregorio Arena, Roberto Danovaro e Pietro Marcolini. La visione grafica e comunicativa di RossodiGrana ha suggellato con la solita maestria e competenza questa piccola follia.
Un pensiero speciale però lo devo a Giorgio Mangani, l’editore che in un giorno di primavera, anziché accompagnarmi gentilmente alla porta - come ogni savio avrebbe fatto - ha preso un blocco di carta giallo a righe e ha iniziato a scrivere.
Questo editoriale è contenuto in A: numero 1 / dicembre 2021 - Foto: Francesca Tilio