Il presidente di Action Aid Davide Agazzi è uno dei massimi esperti italiani di innovazione e imprenditoria sociale. Abbiamo parlato con lui delle sfide che attendono le città dopo la pandemia, e delle potenzialità dei centri di medie dimensioni
Davide Agazzi è uno dei massimi esperti italiani di innovazione e imprenditoria sociale, molto attento ai percorsi di sviluppo territoriale e alle forme di collaborazione tra soggetti pubblici e privati. Ha ricoperto incarichi in una metropoli come Milano ma in questi ultimi due anni è stato anche protagonista di un laboratorio di innovazione urbana a Brindisi che ha destato attenzione e apprezzamento tra chi segue questi processi.
Quest’estate Agazzi è stato ospite ad Ancona di Orbite Fest, l’evento conclusivo di un progetto volto alla sperimentazione di nuovi modelli di aggregazione giovanile e alla valorizzazione di spazi rigenerati. In quell’occasione lo abbiamo conosciuto e lui molto generosamente ci ha dato disponibilità a ritrovarci per una intervista. Ed eccoci dunque a parlare dei temi di cui Davide Agazzi si occupa da sempre e che sono al centro del nostro approfondimento. Cominciamo proprio chiedendogli se secondo lui una città di medie dimensioni come Ancona, che ha molti tratti di somiglianza con Brindisi, può essere terreno fertile di sperimentazioni in questo campo.
«L’ultimo anno e mezzo -risponde- ci ha portato a rimettere in discussione tanti aspetti delle nostre vite che davamo per scontati. Dalla qualità delle nostre relazioni agli spazi delle nostre case, passando per le modalità con cui svolgiamo quotidianamente i nostri lavori. Ci siamo trovati a domandarci, forse per la prima volta dopo un decennio di torpore, chi volevamo incontrare e perché. Il Covid ci ha sbattuto in faccia vecchie e nuove esigenze. E ci ha fatto guardare diversamente alle città in cui viviamo. Quelle grandi hanno mostrato tutto il loro lato disumano e tutti i loro limiti, rispetto alla qualità degli spazi pubblici e privati, soprattutto per chi ha meno. Quelle medie hanno riscoperto di avere ancora qualche cartuccia da sparare, in una competizione sfrenata tra territori in cui fino a pochi mesi fa sembravano destinate a soccombere. Il concetto della “città dei 15 minuti” che va ora molto di moda ed è visto come una panacea per tutti i mali a mio modo di vedere significa prevalentemente una cosa: che le grandi città hanno capito che per essere competitive devono essere più umane. Non è detto che ce la facciano però. Al contempo, le città medie e piccole si devono chiedere cosa vuol dire essere “più città”, come fare ad agganciarsi a quelle dinamiche che le collegano di più ai grandi flussi di conoscenze e capitali. Si apre così ora una partita tutta nuova, che ruota principalmente attorno ad una questione: il lavoro. È sempre questa, se ci pensiamo, la forza chiave che ha guidato la trasformazione dei nostri territori. L’industrializzazione si è portata dietro le fabbriche e le periferie urbane, l’economia della conoscenza ha premiato la densità delle grandi città metropolitane. Cosa succederà oggi, grazie
alle tecnologie digitali che ci consentono di lavorare in modalità sempre più slegate dalla necessità di stare fisicamente in uno stesso luogo nello stesso momento, per collaborare? Passa da qui anche lo scontro tra grandi aree metropolitane e città medie. Il fatto che l’Europa abbia costruito la sua fortuna proprio su queste ultime ci può far ben sperare. Ma la partita è tutta da giocare. Ed i terreni fertili di sperimentazione si riveleranno tali solo se ci saranno abbastanza sperimentatori».
Molti spazi pubblici hanno perso nel tempo le loro funzioni e oggi sono al centro di progetti di rigenerazione e rifunzionalizzazione con risorse significative che lo Stato assegna ai comuni. Il coinvolgimento delle comunità interessate da questi processi è come sappiamo molto importante. Com’è possibile rendere effettiva ed efficace la partecipazione e l’ingaggio dei cittadini evitando, come spesso accade, azioni meramente di facciata utili solo ad infiocchettare idee preconfezionate? E, nelle diverse fasi dell’intervento di rigenerazione urbana, in quali tempi la partecipazione dovrebbe essere attivata e che cosa ci si dovrebbe aspettare dai processi di coinvolgimento civico?
«Il coinvolgimento delle comunità è essenziale per rendere qualsiasi progetto di rigenerazione un potenziale innesco per un processo di trasformazione urbana. Altrimenti stiamo parlando solo di meri appalti per opere pubbliche, piccole o grandi che siano. Che sono importanti, in un momento in cui questi settori sono in sofferenza, ma non determinano discontinuità significative. Quello di cui abbiamo bisogno invece è che questa nuova ondata di investimenti sia da stimolo per nuove progettualità a livello urbano. Il tema quindi non è solo coinvolgere la cittadinanza, la società civile e le forze sociali ed economiche nei processi decisionali. La vera sfida è coinvolgere tutti nella realizzazione di progetti che siano il più possibile innovativi. E, badate bene, anche in questo caso, non si tratta di una concessione, ma di una nuova necessità. Perché i progetti di rigenerazione comprendono mix di funzioni nuove, forme di interazione con pubblici differenti, necessità di trasformare porzioni di territori in luoghi di vita e di lavoro. E questo possono farlo solo realtà capaci di abitare ed interpretare questi spazi in maniera contemporanea, trasformandoli in magneti per nuovi percorsi di sviluppo. Per cui, la partecipazione non va solo intesa in fase consultiva, nel momento in cui si prendono decisioni sulle destinazioni d’uso. Ma va contemplata e praticata anche e soprattutto in fase di implementazione e di gestione di spazi ibridi, per fare in modo che gli investimenti che si riverseranno sui nostri territori possano trasformarsi in occasioni di generazione di valore pubblico, associando sempre più energie attorno a nuove visioni di città».
Concordi con coloro che sostengono che enormi vantaggi possono derivare dalla componente digitale che, anziché spingere verso l’individualizzazione delle persone e la loro chiusura nel privato, può invece -se governata e indirizzata- favorire quella prossimità relazionale e funzionale tra le persone che è alla base della nuova visione della città?
«Il digitale è una brutta bestia. Perché moltiplica le nostre capacità e opportunità e ci rende la vita più semplice. Ma si porta dietro tante nuove insidie di cui spesso diventiamo consapevoli solo troppo tardi. È uno di quei terreni in cui la realtà delle cose è molto più avanti della nostra capacità di comprenderle e regolarle. Le tecnologie digitali di per sé non fanno altro che aiutarci ad assecondare i nostri desideri. E tra questi c’è sicuramente quello di incontrare altre persone. Non è certo responsabilità delle nuove tecnologie se le nostre società si sono atomizzate, se le nostre famiglie si sono rimpicciolite e se a volte viviamo in palazzi o vie in cui non conosciamo i nomi e le storie dei nostri vicini. Anzi, dobbiamo riconoscere che, proprio in questo contesto, alcune app ci aiutano a ricostruire dei legami inediti, su basi diverse. E che quando il pubblico decide di investire fortemente in questa direzione, dotandosi di strumenti di partecipazione e democrazia deliberativa, si scopre una grande voglia di contribuire alla vita pubblica che evidentemente era rimasta inespressa. Pensate solo al successo che hanno avuto le più recenti campagne referendarie grazie alla possibilità di sostenerle con una firma digitale. Poi però dobbiamo avere anche il coraggio di parlare degli aspetti più inquietanti di questo mondo, che non hanno solo risvolti psicologici e sociali (isolamento, nuove dipendenze, nuove forme di abuso), ma che hanno a che vedere con le forme dell’economia e della società (nuovi monopoli di fatto, nuove forme di controllo sociale, violazioni della privacy, nuove forme di sfruttamento del lavoro). È un tema che merita tutta la nostra attenzione e nuove forme di investimento in educazione, a partire dalla scuola primaria. Perché i nostri figli già oggi stanno crescendo in un mondo che ormai ha pochissimo a che vedere con quello che conosciamo».
Le esperienze di coinvolgimento dei cittadini nei percorsi di rigenerazione di spazi pubblici/privati o di riorganizzazione di alcuni servizi e reti di prossimità vengono spesso viste come bei propositi che durano però solo il tempo del progetto e i cui effetti svaniscono nel medio termine. Che ne pensi? Ci sono pratiche che ci dimostrano il contrario?
«La cosa da mettere a fuoco è che il coinvolgimento in termini di partecipazione a processi di consultazione non basta più. Quella parte di società capace di esprimere, anche in potenza, maggiori interessi e competenze, non si accontenta più di essere consultata, ma chiede il potere di co-decidere e chiede di essere coinvolta nella realizzazione dei progetti più significativi. E si comporta così perché si rende conto, consapevolmente o meno, di essere un ingrediente essenziale per la buona riuscita di un progetto. Per come si sono messe le cose, questo, dal mio punto di vista, è senz’altro vero. Per cui chiunque voglia gestire un processo di trasformazione urbana capace di produrre occasioni di sviluppo a livello territoriale deve porsi il problema di come gestire processi di attivazione e partecipazione lungo tutto il ciclo di vita di un processo, dalla fase di ideazione e progettazione di un determinato luogo fino alla sua gestione operativa, avendo cura di mantenere alta una certa tensione vitale anche durante l’apertura dei cantieri di realizzazione. Le esperienze più mature in questo senso vengono dalla Francia. Parigi ha sperimentato, attraverso i bandi di “Reinventing Cities”, poi ripresi dalle principali città del mondo attraverso il network C40, modalità di sollecitazione di interessi privati molto efficaci. Attorno alle aree dismesse da riqualificare non ci si limita a promuovere manifestazioni di interesse o concorsi di idee. Piuttosto viene strutturata una procedura a più fasi in cui si chiede a chi partecipa di costruire delle cordate che sin dall’inizio tengano insieme finanziatori, progettisti, architetti, realtà del territorio e soggetti che si candidano a gestire le principali funzioni inserite in una ipotesi di rigenerazione. I bandi poi prevedono esplicitamente criteri di valutazione orientati alla qualità ambientale e sociale, e premiano chi propone utilizzi temporanei delle aree oggetto di trasformazione, nelle fasi che precedono e accompagnano i quartieri. In questo modo si stimola una competizione al rialzo, che privilegia creatività e capacità di creare alleanze territoriali».
I progetti di rigenerazione di spazi pubblici e/o privati, che ne ridefiniscono funzioni, valore e senso, in molti casi assegnano agli stessi nuove finalità di tipo culturale, sociale o anche turistico. Ciò è in linea con una visione che riconosce a questi settori un valore prioritario nella costruzione della comunità e del tessuto sociale. Ritieni che possano essere settori fertili anche sotto il profilo economico ed occupazionale? C’è un circolo virtuoso che lega questi settori alla competitività delle città, alla loro capacità attrattiva e dunque al loro sviluppo economico?
«Si tratta di funzioni essenziali in questa fase storica, in cui il mantra condiviso sta diventando, almeno a parole, quello della prossimità e della qualità della vita. Funzioni che rientrano a pieno titolo, insieme a scuole, biblioteche e presidi socio sanitari, all’interno del più ampio concetto di “infrastruttura sociale”, che abbiamo capito essere una componente fondamentale della tenuta sociale ed economica delle città. Le infrastrutture sociali, contribuendo a rispondere ai bisogni di base di un territorio, contribuiscono a sostenere una parte di economia per sua natura radicata a livello locale, costituendo allo stesso tempo sia elementi di equità, attrattività e competitività, che anche bacini occupazionali in espansione. Dobbiamo però fare attenzione ad un aspetto che ad oggi non è ancora pienamente messo a fuoco. Il nostro obiettivo, come pianificatori di percorsi di sviluppo, dovrebbe essere quello di promuovere diversità e vitalità a livello economico e sociale. Non possiamo pensare di passare da una monocultura all’altra, di sostituire un modello di economia industriale con uno basato esclusivamente su turismo e cultura. Abbiamo già visto che così non funziona. Dobbiamo invece avere l’ambizione di far crescere un settore accanto all’altro, rendendoli più sostenibili e capaci di produrre valore condiviso, completando idealmente una nuova matrice produttiva molto più complessa e articolata. C’è bisogno del contributo di tutte e tutti per affrontare le sfide che il XXI secolo ci pone».
Davide Agazzi ha 40 anni, una laurea specialistica in Analisi e Politiche dello Sviluppo Locale e Regionale presso l’Università degli Studi di Firenze, e una laurea triennale in Relazioni Pubbliche e Pubblicità presso l’Università IULM di Milano. È esperto di sviluppo locale, innovazione sociale e processi di rigenerazione urbana. È il co-fondatore di From, partner strategico e creativo per la trasformazione urbana. Attualmente è presidente di ActionAid Italia, organizzazione che si batte contro la povertà e l’ingiustizia nel mondo. È tra i fondatori del Comitato “Ti Candido – il potere della democrazia” che si impegna a ridurre le barriere all’ingresso del mondo politico. Ha ricoperto incarichi di responsabilità in società di consulenza, think tank, associazioni ed amministrazioni locali.
Questo articolo è contenuto in A: numero 1 / dicembre 2021 – Foto: Francesca Tilio