La seconda parte del viaggio nel mondo della sanità cittadina è incentrata sul vecchio Umberto I, inaugurato nel 1911 e chiuso nel 2003. Qui sorgerà uno dei due ospedali di comunità di Ancona. Ma che cosa prevede il progetto? E che cosa serve per far sì che tali strutture siano efficaci e virtuose? Ce ne parla Claudio Maffei, medico a riposo, ex docente universitario e dirigente della sanità pubblica

Il 20 novembre 1911 si inaugurava il vecchio Ospedale Umberto I di Ancona che nel 2003 chiuderà. Tra qualche tempo (mesi probabilmente, anni speriamo proprio di no) riaprirà con attività completamente diverse, che con l’ospedale non c’entrano e che anzi dovrebbero fortemente ridurre la necessità dei cittadini di Ancona di ricorrere ai suoi ospedali, nel frattempo trasferitisi quasi del tutto a Torrette (sia il vecchio Umberto I che il cardiologico Lancisi, mentre a breve -anche qui speriamo presto – seguirà il trasferimento dell’Ospedaletto dei Bambini Salesi). Nella prima parte del mio intervento ho descritto le motivazioni da riduzione nel numero degli Ospedali di Ancona e del loro spostamento del centro. In questo secondo articolo descriverò invece una parte importante del progetto di trasformazione del vecchio Umberto I.

La posa della prima pietra dell’Umberto I il 24 giugno 1906 alla presenza dei sovrani d’Italia (foto d’epoca)

 

Vediamo innanzitutto cosa prevede il progetto. Dai giornali locali apprendo che alla sanità saranno dedicati i due padiglioni all’ingresso dell’ex Umberto I. Uno ospiterà una Casa della Comunità, dove saranno tra l’altro trasferiti tutti i servizi presenti ora al Poliambulatorio del Viale della Vittoria, e uno ospiterà delle attività residenziali per gli anziani e un hospice. In questo articolo non entrerò nel dettaglio del progetto, che peraltro non conosco, e non farò polemiche sui ritardi vincendo la tentazione di confrontarli con quelli della realizzazione del primo vero Umberto I (credo sei anni, ma non lo voglio ricordare!). Parlerò invece della filosofia che ha ispirato la parte più interessante del progetto, quella che prevede la creazione di una Casa della Comunità, riservando a future occasioni la presentazione delle indicazioni progettuali di dettaglio, magari con il coinvolgimento delle due istituzioni interessate (Azienda Sanitaria Unica Regionale e Comune).

Partiamo da una banale premessa sotto forma di domanda: come facciamo oggi a rispondere ai problemi di salute dei cittadini con meno ospedali e meno posti letto? Nel caso di Ancona, come si fa a farsi bastare un solo ospedale, oltretutto non in centro? E’ evidente che perché la salute degli anconetani non ne risenta occorre che i servizi territoriali cambino e facciano cose che prima non facevano o non facevano abbastanza. Se impostiamo la questione così proviamo a vedere come il nuovo Umberto I, Casa della Comunità e non più ospedale, aiuterà a funzionare bene e a essere sufficiente il nuovo Ospedale Umberto I (con dentro ovviamente anche il Salesi e il Lancisi).

Vediamo da vicino cosa è una Casa della Comunità. Per dare un senso a tale struttura e alle sue funzioni ci conviene partire da un dato: il principale problema di salute che andrebbe gestito in modo diverso in Italia e nelle Marche per ridurre il carico di lavoro degli ospedali è quello delle malattie croniche. Si tratta di una serie di malattie che non possono guarire, ma possono essere prevenute e/o rallentate. Stiamo parlando delle malattie del cuore (come lo scompenso cardiaco), delle malattie croniche dell’apparato respiratorio, del diabete, dell’ictus, della ipertensione arteriosa, ecc. Sono malattie e condizioni che spesso sono presenti nella stessa persona contemporaneamente e che sono la principale causa di invalidità e di morte. Per queste malattie e condizioni si dovrebbe passare da un modello di risposta tradizionale in cui la persona se si aggrava si rivolge al suo medico di medicina generale e questo si rivolge nei casi più rilevanti allo specialista, ad un modello proattivo di solito identificato con il termine di sanità di iniziativa. In questo modello le persone con una condizione cronica vengono educate a gestire al meglio la propria condizione con l’aiuto dei familiari e quando la loro condizione si aggrava hanno a disposizione una equipe che se ne fa carico senza che lui o lei se ne debba più preoccupare. Si usa in questi casi il termine di “presa in carico” da parte dei servizi. Perché questa avvenga occorre superare la organizzazione tradizionale della medicina generale e della pediatria del territorio (la cosiddetta pediatria di libera scelta) in cui i medici tendono a lavorare ciascuno nel proprio ambulatorio di solito con poco personale di supporto amministrativo, per lo più amministrativo, e arrivare ad una organizzazione in cui i medici e i pediatri “di famiglia” lavorano in equipe assieme a infermieri (tra cui quelli corrispondenti alla figura nuova dell’infermiere di famiglia e di comunità), medici specialisti, psicologi, ostetrici, assistenti sociali e altri professionisti delle aree della prevenzione, della riabilitazione e tecnica. La struttura che ospita questa organizzazione deve offrire i suoi servizi nelle 12 ore diurne e con la Guardia Medica coprire le 24 ore. Ecco, abbiamo appena descritto la Casa della Comunità.

Questa delle Case della Comunità è una quasi novità del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che ne ha finanziate dal punto di vista edilizio 29 nelle Marche, di cui due ad Ancona, uno all’ex Umberto I e una all’ex CRASS. Le caratteristiche organizzative e funzionali di queste strutture sono state definite da un Decreto Ministeriale di recente approvazione. Il Decreto prevede in aggiunta a quanto già detto che le Case della Comunità siano sede di una forte integrazione tra i servizi sanitari e sociali, offrano assistenza domiciliare, ospitino le attività consultoriali, si rapportino con i servizi del Dipartimento di Salute Mentale, svolgano attività di prevenzione delle malattie (come gli screening dei tumori) e di promozione della salute e infine siano aperte ai cittadini e quindi anche al volontariato, alle associazioni dei cittadini e dei pazienti e ai cosiddetti caregiver, e cioè i familiari che partecipano attivamente al processo di assistenza ai loro cari.

Il pensiero di chi ha vissuto almeno da bambino la sanità di 50 anni fa, quella di prima della riforma del 1978 che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale (la Legge 833), corre a questo ai vecchi Poliambulatori dell’INAM, quello ad esempio in via Maratta vicino alla Chiesa del Sacro Cuore dove accompagnavo mia madre. No, la Casa della Comunità è un’altra cosa. E soprattutto non è solo una nuova struttura edilizia che dà una veste migliore e più funzionale ai servizi territoriali così come oggi li conosciamo, ma è molto di più e soprattutto è un modo diverso di occuparsi della salute dei cittadini. Pensiamo solo alla attività dei Medici di Medicina Generale, non più frammentata in tanti ambulatori individuali, ma trasformata in una attività integrata all’interno di una equipe multidisciplinare e multiprofessionale. Una vera rivoluzione che però va costruita, perché non basteranno dei muri nuovi a renderla possibile.

Perché le Case della Salute facciano quello che ci si aspetta da loro occorre che i servizi territoriali che vi dovranno confluire abbiano da una parte più risorse umane (se mancano quelle la nuova struttura rimarrà in parte vuota) e dall’altra sappiano costruire un modo nuovo di lavorare. Con mura nuove e teste vecchie, le Case della Comunità non andranno lontano. E quindi non cominceranno a funzionare quando l’ultimo muratore sarà uscito, bensì quando all’interno si comincerà a lavorare in equipe per garantire assistenza proattiva alle persone, lungo i loro percorsi assistenziali.

Finora ci si è occupati (politica compresa) soprattutto delle mura. Adesso è arrivato il momento di riempirla di risorse e cultura nuove. Ed è su questo che il dibattito pubblico e politico dovrebbe svilupparsi per non trovarsi, a lavori finiti, a dire: “beh, tutto qui?”

 

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Nella foto di copertina: L’ingresso dell’Ospedale Umberto I, anni 1925-1930 circa (Fondo Corsini)