Ciao Silvio, Arcopolis ha solo 3 anni, ma è l’ultima composizione di una storia molto lunga e appassionata del quartiere Archi. Ce la racconti?
I più anziani si ricorderanno l’esperienza del Doge, parroco pescatore, fondamentale per la storia del quartiere. Intorno alla sua figura si era formato un gran movimento associativo: oltre alla parrocchia c’erano Centro H, Archi vivi, Libera comunità in cammino, Scout. Con l’idea della ricerca personale e di relazioni autentiche, ho fondato l’associazione Alla salute. Eravamo nei primi anni duemila e l’associazionismo degli Archi era entrato in una fase di stanca, dovuta anche alla morte di Doge. Il sistema di quartiere, fondato sulle famiglie prima anconetane, poi civitanovesi e lampedusane, stava entrando in crisi, ma i legami erano ancora molto forti: tutti si riconoscevano in alcune categorie culturali, riguardo se stessi, famiglia e matrimonio, lavoro, rapporto con la spiritualità, con la scuola. Aspetti che dall’esterno possono sembrare folkloristici, dentro hanno tanto dolore perché la bellezza del senso di comunità si pagava con solchi prestabiliti: chi nasceva qui aveva una traiettoria obbligata fino a che non moriva. Persone che sono andate a lavorare in mare da quando avevano 13 anni, magari avevano altre qualità o predisposizioni che non hanno potuto seguire. Per quei grandi movimenti globali che poi diventano locali, “la comunità” è diventata “le comunità”. Dopo l’ondata migratoria dei civitanovesi nel secondo dopoguerra, sono venute qui a vivere e lavorare famiglie lampedusane, poi tunisine, nordafricane, senegalesi, bengalesi, albanesi e pian piano questo non è stato più il quartiere di una comunità, ma delle comunità. Bisognava trasformare l’associazionismo, perché la sfida non era più fare comunità in una comunità, ma fare comunità tra le comunità, ed è molto più complesso. Con l’approccio del “presentiamoci”, ci siamo incontrati prima nella seconda circoscrizione, poi nei luoghi di ritrovo delle comunità: chiese, moschee, sale, sinagoghe. Sono iniziate relazioni e affetti che oggi Arcopolis ha in eredità.

E i pescatori?
Quando sono arrivati i nuovi immigrati, i pescatori hanno riversato su di loro un atteggiamento simile a quello che avevano subito, cioè il senso di superiorità degli anconetani più ricchi e (che si sentivano) più colti. Era sottotraccia, ma nella fase di “silenzio” associativo siamo entrati molto in contatto con le famiglie dei pescatori, ci siamo accolti e valorizzati. Dopo anni di relazioni e amicizie la situazione era pronta per ripartire, tutti motivati a far nascere un’associazione che mettesse insieme le comunità. Così abbiamo fondato Arcopolis. Con la cooperativa Polo9 ho conosciuto Nicola Cucchi e abbiamo realizzato il progetto Educalci. Da lì siamo ripartiti, abbiamo coinvolto tanta gente nel torneo e nella ricostruzione del campetto.

Che cosa fa Arcopolis adesso e quali sono i progetti per il futuro?
Col progetto “Viaggi a casa nostra” stiamo girando per le case a conoscere le storie delle persone. Ci sono la danza con Arcopolis dance power (gruppo formato da adolescenti che propongono balli tradizionali delle loro terre d’origine), il rap (è incredibile come bambine e bambini raccontino loro stessi nella forma canzone) e laboratori di pittura e murales. Le storie raccolte avranno vita in un libricino, Le fiabe vere degli Archi. Quest’anno nella festa del 4 giugno presenteremo la canzone rap del quartiere, frutto dei laboratori, e il grande murales in via delle Fornaci comunali. Grande novità: dopo anni di richieste e di iniziative per strada, finalmente abbiamo ottenuto una sede, un ex asilo comunale, di fianco a quello che diventerà il grande murales. Antonio, muratore del quartiere, ci sta regalando il suo lavoro per rimetterla a posto. I prossimi passi saranno aprire un piccolo chiosco al campetto, ampliare la sede negli spazi adiacenti per fare uno studio di registrazione e una piccola palestra. Se vuoi fare qualcosa, non è giusto che tu non possa solo perché non hai i soldi. Dall’anno prossimo i Viaggi a casa nostra diventeranno veri e propri viaggi nei luoghi d’origine delle persone: Berat, Valona, Lampedusa… Il viaggio è bello quando lo fai con le persone, attraverso loro vissuti e l’importante non è che venga fuori chissà che cosa. L’importante è quello che sta già accadendo.