Nuove prospettive, lo stesso impegno

Il numero in giallo di A - Ancona rivista a colori, terzo della serie, si apre come di consueto con l'editoriale del nostro fondatore Carlo Maria Pesaresi. Una panoramica tra i contenuti della rivista che potete scaricare in formato digitale sul nostro sito oppure richiedere in formato cartaceo nelle principali librerie della città.

Che questo piccolo miracolo continui a ripetersi ci riempie di gioia. In questo assai poco disciplinato ordine di uscite, è passato oltre un anno dallo scorso numero. Da allora, nel mezzo, di cose ne sono accadute. Con molti altri compagni di viaggio, audaci e generosi, abbiamo rincorso il sogno ed il desiderio di amministrare una città ed una comunità aperta, proiettata in un futuro fatto di innovazione, cultura, cura e solidarietà. Capita però che i sogni e i desideri prendano altre strade, a volte per un soffio, altre per troppe illusioni o altre ancora semplicemente per sbagli grossolani. E allora ci ritroviamo in un presente diverso e più difficile, che però non smette di sfidarci, che ci sollecita a restare, che continua a provocarci e ci chiede di ricostruire, di ripartire con contenuti, linguaggi e metodi diversi, più coraggiosi.

Il progetto A: Ancona ri|vista a colori, sia su carta che su web, diventa, allora e sempre più, uno dei luoghi da cui ripartire. Uno spazio fisico e virtuale, a disposizione, dove interrogarsi sulla città, dentro e fuori il recinto, un campo dove poter realizzare in modo aperto un confronto sempre più politico sulle urgenze che sono davanti a noi, sulla necessità di una ricomposizione, di una nuova posa delle fondamenta, visto che lì qualcosa si è rotto.

Ecco perché questo numero è giallo. È il colore della luce, dell’energia, della positività, della creatività, della voglia di agire. Nel codice nautico il giallo è anche il colore che segnala l’emergenza e questo, in una città di mare, è doveroso sottolinearlo.

Ecco perché le illustrazioni (splendide davvero) oggi diventano più ruvide, più intense, più forti. Ci serve uno shock che ci obblighi a cambiare prospettiva, a dormire per un po’ in modo scomodo, che ci venga il torcicollo alla mattina. E il gruppo di artisti convocati a raccolta con eccezionale maestria da Micol Mancini ci è sembrato perfetto per soddisfare il nostro desiderio.

Per illustrare l'editoriale di Carlo Pesaresi abbiamo scelto quest'opera di Simone Manfrini, tra gli illustratori protagonisti del Festival Branchie che impreziosiscono il terzo numero di A

 

E questo piccolo miracolo, ancora una volta sapientemente impaginato da quei rigorosi, lucidi ed incoscienti creativi di RossodiGrana, sceglie di ripartire da tre grandi temi che ne costituiscono l’ossatura e a cui dedichiamo lo spazio più ampio: Cultura, Salute, Periferia.

Un numero densissimo.

Che racconta anche di “Ancona a Colori”, comunità politica sorta a valle degli incontri, delle riflessioni, delle cose belle e delle delusioni che hanno attraversato le primarie del centrosinistra e che ora inizia a muovere i primi passi, divenendo luogo di sperimentazione politica autonomo ed innovativo.

Che parla di “Nonturismo”, libro, guida e progetto di Sineglossa, che (finalmente) spic- ca nel panorama un po’ trito e ritrito delle politiche turistiche che circolano nel nostro paese e volge lo sguardo verso una riflessione collettiva sul valore delle comunità, su come coltivare uno scambio intimo e rispettoso tra coloro che visitano e le persone e l’ambiente che vengono visitati.

In cui la nostra cartografia della cura, la “Mappa dei tesori”, continua ad arricchirsi di punti che narrano sempre più di quella Ancona che non molla affatto la sua radicata storia solidaristica e di attenzione ai diritti ed alla cittadinanza attiva e che mostra il lato più bello e forse ancora troppo nascosto di sé.

Dove, un’intensa riflessione di Gaetano Tortorella sui mille volti del quartiere Piano ed

il terzo capitolo della “Storia del capitale sociale anconetano” curata da Giorgio Mangani, completano mirabilmente il quadro degli interventi.

Moltissimi davvero i ringraziamenti non di rito, bensì speciali.

All’indomito comitato di redazione tutto ed a Matteo Belluti che lo conduce per mano. A coloro, singoli o organizzazioni collettive, che abbiamo citato sopra e che abbracciamo.

Al meraviglioso gruppo di Ankonistan, per averci accompagnato, con il suo progetto di narrazione partecipata “AnQnetani”, alla scoperta di un pezzo di città costretta, suo malgrado, dentro un immaginario di quartieri dormitorio e anonimi e a Romina Aguzzi, che di quel gruppo è anima, per averci donato le sue fotografie.

A Valentina Conti, coraggiosa e testarda editrice, che ci ha ospitato nella sua bella libreria per ragionare di politiche e proget- tazione culturale, tra l’esigenza di relazionarsi con il mondo esterno e la necessità di una riflessione profonda sulla dimensione e sull’identità locale. Ed agli amici Damiano Aliprandi, Federico Bomba, Mara Cerquetti, Pierluigi Feliciati, Tommaso Sorichetti e Simona Teoldi che ci sono venuti a trovare e che quel dibattito hanno animato.

A Claudio Maffei per il suo prezioso lavoro, prima a puntate sul sito ed ora qui condensato su carta, con cui prova a tirare le fila di un’Ancona città della salute tra passato, presente e (quale?) futuro.

A Giorgio Mangani per l’impegno che, da intellettuale raffinato qual è, ha rivolto a questo numero e per continuare, da editore, ad aprirci la porta del suo Studio, ar- rampicato lassù a Capodimonte.

A tutti voi che ci leggete e che ci auguriamo vogliate sempre più essere parte attiva e protagonista di questo piccolo miracolo.

 


Ancona, città di perle inattese e tesori dormienti, ha bisogno di interventi di qualità

Affascinante quanto complessa, Ancona vive in precario equilibrio tra il “troppo bello” dei suoi monumenti e il “veramente brutto” di alcune “incomprensibili sovrastrutture”. La sfida: sfruttare i suoi contenitori spettacolari per valorizzare il potenziale culturale delle Marche. La penna acuta di Pippo Ciorra traccia la rotta di una città che vuole finalmente recitare un ruolo da capoluogo.

Abitare ad Ancona è un privilegio che bisogna meritarsi. Lo è per l’incredibile ricchezza morfologica della città, un coacervo irripetibile di colline, valli, scogliere, falesie, rive, banchine, ramblas, fortificazioni, monumenti che hanno richiesto anni e anni di silenziosa osservazione prima che mi sentissi in grado di ricostruirne un’immagine mentale tridimensionale, e forse anche una planimetrica. L’emblema percettivo della città per me era quello strano corso principale che va da mare a mare (e da secolo a secolo), lasciando interdetto il visitatore inesperto, e confondendo continuamente l’idea di dove si trovino il nord, il sud, eccetera. Ancona è un privilegio anche per la presenza di un grande porto e del disagio inevitabile che implica per la città (uno status che vale per tutte le città portuali). Si tratta però di un disagio che ha un’altra faccia straordinariamente positiva e stimolante. Non solo per le sue implicazioni economiche, certo non secondarie, ma perché costringe quotidianamente la città a fare i conti coi flussi di persone, la diversità di lingue, nazionalità, etnie, motivazioni, ambizioni. Un cuore dinamico e scontroso, insomma, che batte forte al centro del tessuto urbano, irradiando allo stesso tempo fascino, energia e problemi.

Il porto è quindi la sintesi perfetta della città, legato al mare, ostile e impenetrabile all’entroterra, stressato tra il troppo bello dei suoi monumenti e il troppo brutto di alcune sue sovrastrutture, pubblico e segregato allo stesso tempo, estroverso e pieno di (spazi) segreti. È forse il carattere che più distingue Ancona: un paesaggio dalla morfologia estrema e affascinante dove è quasi impossibile trovare un registro intermedio, uno spazio neutro che colmi la distanza vertiginosa tra i suoi pregi e i suoi difetti (urbanistici e architettonici). La città insomma conosce solo due registri: il bellissimo e il veramente brutto, con la conseguenza che chi la percorre è sottoposto a uno stress estetico continuo, che si può assorbire solo lentamente, con l’aiuto della conoscenza delle sue vicende, con la consapevolezza della sua geografia, con l’abitudine, con la capacità che si sviluppa di affezionarsi ai luoghi a prescindere dal loro aderire a un canone estetico tradizionale. Per molto tempo una delle mie “architetture anconetane” preferite era un benzinaio all’uscita sud della galleria Risorgimento, una macchia gialla che tagliava diagonalmente una collina e ricordava (alla lontana) certi edifici di Zaha Hadid. Convincemmo un fotografo importante (Olivo Barbieri) a farne un ritratto, che ovviamente conservo con amore. Poi il benzinaio ha cambiato gestore, il giallo è diventato un colore più anonimo, in vista è rimasta solo la piccola violenza alla pendice di una collina e addio effetto Hadid.

Quali sono i problemi più urgenti di Ancona (almeno nel campo della cultura urbana) e quali sono le azioni che si potrebbero mettere in campo per risolverli? Immagino che ci sia questo nella testa di chi mi ha chiesto questo testo. Non è una domanda difficile a cui dare risposta; quelle difficili, data la forma, la storia e la struttura della città, sono le risposte operative da proporre per ognuno dei problemi. Ancona ha certamente un problema di viabilità, legato appunto alla sua morfologia e al fatto che il porto è nel cuore della città. Ma è una questione che lasciamo volentieri agli esperti e agli urbanisti, davvero bravi, della città. Di certo, se si crede allo sviluppo ulteriore del porto, prima o poi un modo efficiente per collegarlo alle grandi infrastrutture andrà trovato. Per il resto, più che problemi Ancona ha molte opportunità ancora da cogliere, e forse su queste dovremmo puntare l’attenzione.

La prima, o per lo meno quella della quale per me è più facile parlare, è il rapporto tra cultura e città. Come tutte le città italiane Ancona abbonda di contenitori spettacolari. La Mole, la Polveriera, il Teatro delle Muse, il Palazzo degli Anziani, la Cittadella e via dicendo, distribuiti ai quattro angoli della città. Di queste il teatro è ovviamente quello con l’identità più consolidata, naturalmente legata a una vocazione comune a tutto il territorio regionale, oggetto di un intervento architettonico di qualità alla fine del secolo scorso e tuttora legato a un tessuto che continua a produrre eccellenze. L’urgenza per le Muse non implica invenzioni o cambi di rotta radicali, dipende solo dalla programmazione e dalla capacità di assicurare al teatro un buon management e budget adeguati. Diverso il discorso per gli altri contenitori ad alto tasso di heritage, soprattutto la Mole Vanvitelliana, isola sublime e accerchiata dall’aggressività portuale. La Mole per me rappresenta il termometro della potenzialità culturale della città. Finora lo sforzo -giusto- è stato di recuperarla e destinarla ad attività culturali (e formative). Ospita grandi mostre itineranti, alcuni festival interessanti, molti eventi. Forse il passo successivo potrebbe essere quello di rompere l’accerchiamento portuale estendendo l’aura della Mole oltre i confini della città, nella regione e nella città costiera adriatica transregionale.

Osservando le Marche ci si rende conto che esiste una produzione culturale e artistica polverizzata e instancabile, spesso di qualità alta o altissima, legata a questo o quel dispositivo locale (un’accademia, un gruppo di artisti, una facoltà, una galleria d’arte, una genealogia specifica). Una produzione che però va in parte dispersa o lascia poche tracce perché mancano punti di riferimento di scala maggiore, nazionale o internazionale, hub in grado di coagulare l’energia diffusa (con ovvie e ben note eccezioni relative per esempio ai festival musicali). Con gli studenti molte volte abbiamo vagheggiato in modo molto accademico di un museo dell’arte contemporanea regionale al Lazzaretto, o comunque al porto, imperniato sul lavoro dei maestri che hanno segnato questa regione, Licini, De Dominicis, Giacomelli, Cucchi, Pomodoro, tanto per cominciare. Forse è un’idea ingenua, difficile da attuare in una regione così plurale e così piena di autonomie da proteggere, ma è certo che se la città vuole mostrarsi capace di scavalcare le colline che la circondano e costruire un legame “da capoluogo” col suo territorio, allora forse è proprio sulla cultura che può e deve puntare, facendo del Lazzaretto -o di un altro dei suoi monumenti- il centro di una rete a cui non manca certo l’energia. La città insomma, oltre ad attirare e ospitare cultura, può essere più consapevole della sua capacità di produrla, e di farne un medium delle sue relazioni col mondo. La città peraltro ha esattamente la dimensione ideale da “sede di festival” importante, con una popolazione a metà tra Mantova e Modena, alcune sedi eccellenti, una corona di Comuni e località turistiche che costituiscono un bacino di utenza molto interessante.

Ancona ha una forte tradizione di (buona) urbanistica. La qualità dell’architettura e degli spazi urbani anconetani soffre invece di evidenti alti e bassi. Dagli splendori di alcuni edifici e piazze storiche si scivola verso un tono molto più variabile negli interventi moderni e contemporanei. Non mancano perle inattese (e non sempre riconosciute), come il mercato del pesce di Gaetano Minnucci o la lunga stecca inclinata di Sergio Lenci nelle aree della ricostruzione post-terremoto (che credo più amata da chi ci vive rispetto a chi la guarda), qualche cameo interessante nei quartieri esterni, e ovviamente siamo tutti pieni di gratitudine postuma per Danilo Guerri e Paola Salmoni per il restauro delle Muse. Ma non si può negare che l’impressione generale sia quella di una città in cui gli sforzi degli architetti sono un po’ oscurati da un continuum edilizio in media non particolarmente “bello”. Dipenderà forse dal fatto che mancano in città le tracce architettoniche tipiche del periodo tra le due guerre che troviamo in molti altri centri urbani importanti. Manca insomma l’eredità architettonica degli anni ’20 e ’30, e lo slancio di modernità degli anni ’50 è costretto a crescere su una tabula rasa e a basarsi su casi eccellenti e sporadici, senza affermarsi a sufficienza nel tessuto urbano. Tutto questo per dire che la città ha bisogno di interventi di qualità. Il porto, i molti edifici in attesa di progetto, i vecchi contenitori da restaurare o riciclare -viene in mente il Mercato delle Erbe- sono occasioni straordinarie, che la città dovrà cercare di cogliere per dare il senso di una consapevolezza del proprio ruolo e della fiducia nel futuro che devono competerle.

Ho omesso di scrivere di un altro sublime intreccio di cultura e spazio che segna lo splendore e il menu di problemi della città, vale a dire tutta l’area “in quota”, col Cardeto, i Fari, la zona archeologica e via dicendo. È una specie di tesoro dormiente e segreto della città, un parco storico di dimensioni monumentali di potenzialità smisurata. “Una fatica arrivarci” direbbe qualcuno, e ancora più difficile comunicarne al mondo (turisti, villeggianti, non-anconetani) l’esistenza e l’unicità. Forse è questa l’occasione per fare della “mobilità creativa” e provare ad applicare metodi di accessibilità non ortodossi: tapis-roulant, mini-funivie, navette elettriche, funicolari, ascensori che leghino la quota della città a quella del Cardeto e facciano del parco stesso uno dei contenitori possibili per una strategia oculata di eventi. Ancona insomma è bella e complessa, ma proprio nelle pieghe della sua complessità si possono trovare spazi e suggerimenti per risolvere alcuni problemi e per aprire nuovi scenari.

 

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Foto di copertina: splendida veduta della Mole Vanvitelliana di Francesca Bianchelli